Vladimir Putin può dormire sonni tranquilli. Se strapperà la Crimea ai «rivoluzionari» di Kiev e la restituirà al 60 per cento di «crimeani» russi nessuno muoverà un dito per fermarlo. A 161 anni della guerra combattuta da un embrione d'Italia al fianco degli imperi di Parigi, Vienna e Londra nessuno in Europa o dall'altra parte dell'Atlantico sembra ansioso di contrapporsi al nuovo zar. Anche perché se per Vladimir la sfida è fondamentale per affermare la rinata volontà di potenza del proprio impero per Europa e Stati Uniti è, nei fatti, una battaglia perduta in partenza. Una battaglia in cui neppure il «profondamente preoccupato» Obama ha molte carte da giocare. Un boicottaggio del G8 di Sochi del prossimo 4 giugno avrebbe, politicamente, la stessa efficacia di un trapianto di cuore su un paziente morto. Entro quella data Putin potrebbe essersi mangiato non solo la Crimea, ma l'intera Ucraina. Le rappresaglie economiche appaiono altrettanto inadeguate.
Cercar d'intimorire una Russia strabordante di petrolio, gas e materie prime con qualche sanzione è come andar a caccia di elefanti con un fucile a pallini. Anche perché un veto di Mosca basterà a bloccare la loro approvazione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Ancor più azzardata l'ipotesi di un faccia a faccia militare che alla fine costringerebbe Obama a scegliere tra una retromarcia in stile «siriano» o un intervento da brivido nel sancta sanctorum della flotta russa del Mar Nero. E neppure una controllata contrapposizione in stile guerra fredda è esente da complicazioni. Per capirlo basta immaginare i rischi che la Nato affronterebbe per completare l'imminente ritiro da un Afghanistan dove la Russia continua a gestire insidiose e complesse alleanze.
Ma il vero fianco molle di una crociata occidentale per la Crimea è quello europeo. La caduta di Viktor Yanukovich si sta già rivelando una vittoria di Pirro per un'Unione Europea chiamata ad un risanamento dell'Ucraina del costo stimato di 35 miliardi di dollari. Un profondo rosso a cui s'aggiungono i crediti inesigibili delle banche europee esposte con l'Ucraina per oltre 23 miliardi di euro, ben 7 dei quali garantiti, tra l'altro, da istituti italiani. E il salasso diventerebbe catastrofe se Mosca chiudesse i rubinetti di un gas che oltre a riscaldare l'Ucraina soddisfa il 22 per cento del fabbisogno dell'Unione Europea. Il blocco metterebbe letteralmente in ginocchio Germania, Austria e Italia e avrebbe seri contraccolpi per le economie di Francia ed Inghilterra. A render improbabile una linea dura dell'Europa contribuisce però il ritorno alla guida della politica estera tedesca di Frank-Walter Steinmeier. Il ministro socialdemocratico dell'era Schroeder - considerato un buon amico della Russia - è stato messo su quella poltrona proprio per stemperare le asprezze tra la Cancelliera Merkel e Vladimir Putin e salvare gli scambi economici per oltre 80 miliardi di euro tra Berlino e Mosca. Una cornucopia a cui nessuno in Germania rinuncerebbe e da cui dipendono i rapporti del governo con la Ostausschuss, la potente lobby delle aziende impegnate non solo a far affari con la Russia, ma anche a muover consensi, voti e finanziamenti.
Alle valutazioni economiche s'aggiunge poi il fastidio di Parigi, Berlino e Londra per il dilettantismo estremista esibito dal parlamento di Kiev. Abolendo le leggi a tutela delle popolazioni russofone e nominando responsabile della sicurezza nazionale Andriy Paubiv, capo della formazioni anti russa più radicale, i «rivoluzionari» ucraini hanno regalato a Putin il pretesto perfetto per l'intervento in Crimea.
Un pretesto identico a quello utilizzato nel 2008 per mandare i carri armati a ridimensionare il presidente della Georgia Mikheil Saakashvili deciso ad annettersi l'Ossezia. Quella volta persino un presidente risoluto come George Bush preferì girarsi dall'altra parte. Figuriamoci Obama e i burocrati di Bruxelles.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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