La battaglia del grano fu un pallino dell'Italia fascista; la guerra del calcio incendiò El Salvador e Honduras nel 1969; la rivolta del whisky, invece, rischia di essere il leit motiv dell'indipendenza scozzese.
A legare a doppio filo la politica separatista e il distillato nazionale è stato John Kay, professore di economia e consigliere del governo autonomo scozzese, il quale ha proposto di tassare di una sterlina ogni singola bottiglia prodotta tra Highlands e Lowlands. Tralasciando il comprensibile orrore dei liberali di tutto il mondo, dietro questa idea c'è l'esigenza di far cassa. E anche il desiderio - un po' più subdolo - di pugnalare i cugini inglesi. Il mercato dello scotch, infatti, non conosce crisi (nel 2011 ne sono state esportate 40 bottiglie al secondo, per un giro di affari di cinque miliardi di sterline), ma la maggior parte dei produttori ha sede fuori dai sacri confini di Scozia. In particolare, il 40% del settore è in mano alla Diageo, colosso degli alcolici che le tasse le versa al fisco di Sua Maestà.
Il fatto che imprese di mezzo mondo (inglesi comprese) realizzino ogni anno profitti per 3 miliardi di sterline grazie a torbati e affini non va proprio giù agli scozzesi, i quali per voce di Sir George Mathewson (presidente del Consiglio economico di Edimburgo) si dicono favorevoli al nuovo balzello. Che per essere introdotto avrà bisogno di un escamotage: dato che la facoltà di tassare l'alcol spetta solo al governo britannico, si dovrà quindi tassare l'acqua con cui il whisky viene fabbricato. Il risultato non cambierà: 1,2 miliardi di sterline di extra-gettito (teorico) ogni anno. Non male per un governo in difficoltà che mira a diventare indipendente con il referendum in programma nel 2014.
Ma se per Churchill il whisky - con l'aggiunta di un buon sigaro - era il segreto della longevità, forse per la Scozia non sarà il segreto della serenità economica. I produttori sono già sul piede di guerra, minacciano di cancellare i due miliardi di sterline di investimenti già previsti e ricordano come un calo di vendite potrebbe causare licenziamenti tra gli 11mila impiegati nel settore. Ed ecco che il conflitto fratricida del barilotto rischia di avere le sue vittime collaterali: i lavoratori. Non è comunque la prima volta che le pulsioni separatiste scozzesi cozzano contro le ritorsioni unioniste. Esattamente un anno fa, il responsabile del Foreign office di Londra, William Hague, aveva avvertito: «Se la Scozia ci lascerà, non promuoveremo più i suoi whisky nel mondo». Indipendenza=crisi economica=disoccupazione.
D'altronde la guerra è guerra e si combatte anche così, armati di fisco e campanilismo, orgoglio e pregiudizio. Sparando imposte patriottiche e difendendosi in trincee di terrorismo sociale. L'esercito dello scotch è schierato: il generale Lagavulin, il colonnello Oban, il maggiore Glenmorangie, tutti reclutati obtorto tappo affinché l'infinita lotta di Edimburgo per emanciparsi da Londra si concluda con un colossale brindisi di festeggiamenti. Nella speranza che non finisca invece naufragando in un bicchier d'acqua. O di scotch.
Sono i profitti realizzati ogni anno da produttori che hanno sede fuori dai
È il numero di bottiglie esportate dalla Scozia, ogni secondo, solo lo scorso anno. Il giro d'affari complessivo, nel 2011, è stato di 5 miliardi di sterline
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