La vendetta

C’è ancora un po’ di lavoro da fare prima che la «nuova Libia» diventi effettivamente migliore di quella «vecchia», cioè quella - tuttora viva e vegeta, ancorché in pessime acque - del colonnello Gheddafi. Per esempio evitare che prendano piede agguati e vendette come quelli che hanno insanguinato Bengasi nelle ultime settimane, vittime aguzzini e tirapiedi dell’odiato governo di cui la Cirenaica si è liberata. E che si faccia in modo che il gran parlare che comincia a farsi di squadre della morte finisca al più presto.
Racconta l’inviato della Herald Tribune che i casi accertati di omicidi mirati (e fin qui impuniti) sono almeno quattro, ma potrebbero in realtà essere una dozzina. Responsabili presunti i membri della «Forza di protezione della Rivoluzione del 17 febbraio», che si dedica in accordo con le nuove autorità di Bengasi alla ricerca e al deferimento davanti alla giustizia di personaggi implicati nelle brutali repressioni cui il regime di Gheddafi sottoponeva gli oppositori. In diversi casi, par di capire, le operazioni non si svolgono nel rispetto della legge, ma si concludono con atti di giustizia sommaria. Vendetta, insomma.
Come nel caso di Nasser al-Sirmany, trovato ammazzato il 20 aprile con due colpi d’arma da fuoco alla testa, mani e piedi legati, nella campagna alla periferia di Bengasi. O in quello di Hussein Ghaith, il cui cadavere è stato rinvenuto ai margini del deserto da un pastore dieci giorni più tardi: aveva la fronte bucata da un proiettile. Le due vittime avevano in comune un passato sinistro come protagonisti degli interrogatori degli oppositori del regime. Interrogatori che avvenivano nelle carceri bengasine, e chi ci è passato uscendone vivo spiega che definirli brutali non basta per rendere l’idea. Al-Sirmany e Ghaith non erano insomma due fiorellini, ed è più che plausibile che qualcuno si sia vendicato di loro, magari membri di qualche movimento islamico nei confronti dei quali gli scagnozzi di Gheddafi non andavano tanto per il sottile.
Ma un conto sono casi individuali di vendetta per vecchi conti da pareggiare, un altro l’inquietante ipotesi che le nuove autorità «coprano» queste violenze assumendosene indirettamente la responsabilità. «No, la nostra responsabilità è proteggere la gente - dice il «ministro» della Giustizia di Bengasi Jamal Benour -. È importante che gli assassini siano puniti. Prima di tutto viene la legge». Benour riconosce che alcuni elementi della «Forza 17 febbraio» sono stati accusati di abusi, tra i quali anche furto di armi e di beni vari. Per questo, ha detto all’inviato del giornale americano, il capo del gruppo, Mohamed Jeroushi, è stato sospeso, sembra peraltro con scarsi effetti pratici.
Poca luce è stata finora fatta su un’altra decina di casi di apparenti esecuzioni sommarie: non è chiaro se tutte le vittime avessero lavorato per il regime di Tripoli.

Quel che è certo è che in una città visibilmente incamminata verso la normalità, e dove si registra fra l’altro un boom di vendite di libri prima vietati, non può esserci spazio per metodi che della democrazia non sono neppure parenti lontani.

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