Firenze - Esile ma determinata, in lei tutto ricorda la madre Ingrid Betancourt. Stesso sguardo fiero, stessi capelli neri che cadono lisci sulle spalle e la stessa dolcezza nei gesti che accompagnano le sue parole. Sono parole forti e sorprendentemente mature quelle di Mélanie Delloye Betancourt, una ragazza che a settembre compirà 23 anni e la cui vita è dolorosamente cambiata quando ne aveva appena 16. Era il febbraio 2002 quando la madre Ingrid, fondatrice del Partito Ossigeno Verde e candidata alla presidenza della Colombia, fu rapita dalle Forze armate rivoluzionarie della Colombia e tenuta in ostaggio nella giungla sudamericana insieme ad altri prigionieri. Notizie che arrivano col contagocce raccontano una donna stanca e malata ma comunque armata di una grande volontà. E numerose iniziative di solidarietà, ultime in ordine di tempo la proposta di assegnarle il Premio Nobel per la Pace, partita dalle colonne de L’Unità, e il Premio Galileo per la Libertà di pensiero che mercoledì sera Mélanie, che studia sociologia a Parigi, ha ritirato a Firenze per conto della mamma.
Mélanie, qual è l’ultimo ricordo
che ha di sua madre?
«Sono molti in realtà, perché
è sempre stata molto presente
nella mia vita e in quella di
mio fratello Lorenzo. Uno dei
ricordi più belli è un viaggio
a Firenze nel ’99, quando ci
ha fatto conoscere la storia, i
musei e i luoghi più suggestivi
della città. Ci è sempre stata
molto vicina, e anche se
tornava alle due di notte per
il suo lavoro si alzava presto
per fare colazione insieme
con noi. Stava dietro alla
scuola e ai nostri impegni, e
sapevamo di poterci rivolgere
a lei per ogni problema».
Un legame molto forte quindi.
«Parlavamo tantissimo. Di
noi, ma anche della Colombia
e dei suoi problemi. Ci ha
comunicato la sua passione
per la politica, senza farci
pensare però che fosse più
importante di noi».
Sente molto la sua mancanza?
«Anche se non la vedo da sei
anni ogni volta che ho un problema
penso a lei e trovo le
risposte che cerco. Certo, a
volte è molto dura, anche perché
non pensavo che questa
storia sarebbe stata così lunga,
e spesso mi basta camminare
per strada perché qualcosamela
richiami alla mente
».
Come riuscite a comunicare?
«Non riusciamo a parlarci direttamente,
noi riusciamo a
mandarle dei messaggi attraverso
un programma alla radio
che si chiama “Le voci del
sequestro”. Attraverso gli
ostaggi liberati dalle Farc
sappiamo che lei e gli altri
prigionieri li ascoltano, e che
per loro sono motivo di gioia.
L’ultimo gliel’ho mandato lunedì,
dicendole del premio
fiorentino, e sono sicura che
nell’ascoltarlo avrà sorriso
perché Firenze è rimasta nel
suo cuore».
Ma come sapete che lei è in
vita, non potendole parlare?
«Lo scorso dicembre abbiamo
ricevuto un video e una
foto che provano la sua sopravvivenza,
e sempre a dicembre
ci ha scritto una lettera
incredibile che dimostra
la sua forza e la sua lucidità,
e dove ci fa capire che dimenticare
è la cosa più terribile,
non dobbiamo dimenticare il
privilegio e la fortuna di essere
liberi. C’è anche la testimonianza
di un ostaggio che è
stato rilasciato a febbraio.
L’ha vista l’ultima volta il 4
febbraio e mi ha detto che è
viva e forte, anche se molto
debilitata. Tramite lui ci ha
mandato alcuni regali».
Cosa pensa della proposta
di assegnarle il Nobel?
«Penso che mia madre lo meriti,
ha cercato di far cambiare
le cose in Colombia ed è
diventata un simbolo della
tragedia del nostro paese. Il
Nobel contribuirebbe a tenere
alta l’attenzione su di lei e
potrebbe aiutare a risolvere
la situazione».
Crede che l’Europa possa fare
qualcosa per questi ostaggi?
«Le Farc sono considerate come
forze del terrorismo, e se
40 anni fa la loro lotta aveva
un valore politico e un ideale
oggi è inaccettabile che abbiano
degli ostaggi civili. Loro
pretendono che siano prigionieri
di guerra ma non sono
militari, sono civili, non
hanno divise addosso.
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