Europei di atletica: ko nella 50 km di marcia e nell’alto

Non sempre vale l’effetto Casillas. Lei ti guarda, te la baci e sei campione del mondo. Alex Schwazer può confermare. Lei ti guarda e tu ti fermi, anzi affondi nel dispetto e nella desolazione. Insomma c’è sindrome e sindrome. La sindrome Casillas è ad alto potenziale. Quella di Schwazer per ora volge al peggio. Due anni che non ci prende più. Dov’è finito il nostro braccio di ferro di Pechino, quello che sventolava l’amore suo (già allora Carolina Kostner) davanti al mondo e vinceva la 50 km delle Olimpiadi con la spavalderia di un Hulk?
I distillatori di cattivi pensieri potranno raccontarsela: lui marcia e non si diverte, lei pattina e cade. Che almeno, Carolina e Alex, si consolino con l’amore. Anche se, per predatori di razza, non può bastare. C’è sport e sport, c’è amore e amore. Schwazer lo ha spiegato con il solito impeto autodistruttivo, sta nelle sue qualità di campione. «Sembra che il mio fisico faccia di tutto per non faticare. E invece in questo sport bisogna essere umili, umili. Aver voglia di spaccare il mondo». Lo ha fermato un dolore alla coscia destra al km 38. Quando la gara per l’oro della 50 km sembrava già vinta dal francese Yohan Diniz, un bel tipo: partito solo, arrivato da solo, mentre lo inseguivano Alex e un gruppetto sempre più ristretto (c’era anche l’altro azzurro Di Luca, poi 6°). Campione quattro anni fa e campione ora, dopo 3 ore e 40 minuti di imperturbabile faticaccia. Un tipo che non è più ragazzino, 32 anni, nato nelle terre dello Champagne, impiegato al ministero delle Poste e dedito alla promozione della salute sul lavoro. Spesso si presenta alle gare dei dipendenti postali per recitare il suo credo. Poi, quando serve, mette in pratica. Magari Schwazer potrebbe chiedere consiglio.
Ecco, così si è consumato un tradimento: per il SuperIo di Alex e per l’Italia che lo attendeva, in piedi dalle sette del mattino. Alex si è scusato: «Da due anni, dopo le Olimpiadi, non riesco più a gioire. In altri tempi avrei dominato». Ma forse dimentica i musi lunghi, dopo ogni gara chiusa in fuori giri. È la replica di teatrini già vissuti. Forse c’è qualcosa di psicologico, manca un equilibrio: nelle vittorie e nelle sconfitte. Lo spiega una frase: «Mi sento vuoto, moscio. Devo fermarmi per capire». L’argento delle 20 km non lo aveva appagato. Lo ha ripetuto ieri. Il pensiero fisso è un altro: «Dopo aver vinto ai Giochi, mi sembra tutto scontato». Servono stimoli, cambiare qualcosa. Non è il primo caso, l’oro olimpico può far male: rovina motore e testa. L’anno scorso un segnale, con quel ritiro nel mondiale: un blocco nella testa più che nelle gambe.
E, ieri, l‘azzurro d’Italia è diventato tenebroso. Schwazer e Antonietta di Martino si sono fatti più in là, scomparsi dietro delusioni e sconforti. Proprio loro, la nostra garanzia di medaglie. Magari c’entra davvero l’amore. Antonietta aveva appena detto: «Sto con una persona che mi vuole bene, non sento peso addosso e mi ha suggerito: pensa a divertirti anche in gara, non ti angosciare». Il tempo di tre salti nelle qualificazioni del mattino e le angosce sono ricomparse. Addio divertimento e addio europeo. La ragazza che non tradisce mai, stavolta ha perso le ali: 1,83, poi 1,87 e 1,90. All’1,92 ha sentito l’asticella più alta di sempre. Che dire? Quest’anno si era tenuta bassa al Golden Gala (m. 1,95), ma poi era volata sulle quote delle regine (due metri in coppa Europa, 2,01 ai campionati italiani).
Quell’1,92 valeva un allenamento. E invece non è servito il consiglio dell’amor suo. «Un fastidio al tendine e sono andata nel panico», ha raccontato lei. «Avevo paura di mettere il piede a terra».

Da buona napoletana crede al fato e a tanto altro. Ne ha viste troppe. Eppure ha ripensato alla «solita fortuna…».
Morale della favola: ieri lo sport italiano ha dimostrato che, quando si è campioni, l’amore non basta. Meglio le medaglie dei baci.

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