Ha dimostrato una qualche temerarietà il presidente della Camera di Commercio riminese, Manlio Maggioni, riconoscendo che non solo numerose imprese romagnole evadono il fisco, ma lo fanno perché altrimenti non resterebbero in vita. Si è trattato di un'uscita coraggiosa, o forse egli non si immaginava che una verità così elementare avrebbe urtato tante sensibilità. Perché ora in tutta la Romagna sindacalisti e politici sono impegnati in una sorta di processo pubblico ai danni del poveretto: e la sentenza, com'è ovvio, è già stata scritta.
Eppure Maggioni ha ragione, perché oggi molte aziende possono continuare a produrre ricchezza soltanto sottraendo allo Stato una parte dei profitti. E anche studiosi lontani da una sensibilità liberale hanno più volte evidenziato come il Paese - nel suo insieme - tragga beneficio dal fatto che una quota significativa del mondo produttivo riesce a sfuggire a obblighi e controlli. Sul piano economico, ogni euro negato al fisco è un euro che resta nel settore privato (la parte più produttiva) ed evita di prendere la strada del settore pubblico (la parte meno produttiva).
Prendiamo poi il caso del Mezzogiorno, dove l'evasione è una realtà particolarmente ampia. È fuori discussione che una pressione fiscale che il Centro-Nord in linea di massima riesce - sebbene a fatica - a sopportare, è spropositata per uneconomia fragile comè quella meridionale. L'evasione di massa che caratterizza il Sud, quindi, non va tanto addebitata a carenza di civismo, ma è la semplice conseguenza del fatto che per molte piccole imprese non chiudere i battenti significa ignorare la legislazione vigente.
Se si vuole che gli italiani osservino le leggi, d'altra parte, è necessario che esse siano rispettabili: e in ambito fiscale questo significa che bisogna ridurre la quota di risorse che il ceto politico-burocratico toglie ai produttori. Quando lo Stato ci sottrae la metà del reddito, si è fuori da ogni logica: il potere, a quel punto, è solo un «grande latrocinio», per usare la nota espressione di Sant'Agostino.
Perché non bisogna mai dimenticarsi che la tassazione è uno spostamento di ricchezza (imposto con la forza) dalle mani di alcuni alle mani di altri: e in particolare da chi l'ha prodotta a coloro che controllano l'apparato pubblico. Dal punto di vista analitico, è una rapina autorizzata dalla legge: è una proposta - per ricordare la celebre espressione de Il Padrino - «che non si può rifiutare».
È anche per questo motivo, e cioè per la giustificazione strutturalmente debole che è alla base del prelievo fiscale, che ben pochi amano le imposte e molti accettano invece il rischio - evadendo - di andare incontro a gravi conseguenze legali. E non è un caso se le grandi rivoluzioni contro lassolutismo - in Inghilterra come in America - sono state, nella sostanza, ribellioni di contribuenti.
Al fondo del dibattito di queste ore cè l'opposizione tra una visione liberale e una statalista, una individualista e una collettivista, come emerge pure dalla lettura di due libri molto diversi, e perfino contrapposti, che trattano la questione: Evasori di Roberto Ippolito (edito da Bompiani), che sposa toto corde le ragioni dello Stato e adotta una prospettiva giustizialista, ed Elogio dell'evasore fiscale di Leonardo Facco (edito da Aliberti), che invece evidenzia le ragioni della resistenza di fronte allo strapotere dell'apparato statale.
Chi pensa che l'Italia abbia bisogno di più spesa pubblica sarà allora favorevole ad ogni inasprimento della lotta all'evasione. Ma chi invece ritiene che il Paese stia soffrendo per un eccesso di politica, può solo condividere le osservazioni di Maggioni.
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