Evviva la legge anti-proteste

Dopo tanto protestare e cincischiare la Tav ha avuto il sì dei sindaci locali. Per i fautori delle grandi opere - mi iscrivo al gruppo - una novità importante che ero tentato di definire epocale. Ero perché poi mi sono convertito alla cautela. Non che mancassero i motivi di soddisfazione. Su queste colonne Stefano Filippi li ha elencati con puntualità. È che tra le righe degli annunci e delle dichiarazioni legittimamente ottimistiche emergevano dubbi, distinguo, reticenze di vecchia italica scuola. Qualcuno ha ammonito che «non c’è accordo sul tracciato, ma un’intesa politica sul percorso»: frase della quale fatico a intendere il senso preciso, parendomi tuttavia che suppergiù voglia dire questo: non illudetevi, dovrete ancora sudare. L’ex sottosegretario Paolo Cento dei Verdi si è provato a fare la voce grossa: l’esecutivo ora non si azzardi a mandare i militari sul posto. La speranza degli anti Tav è riposta, adesso, nell’«avanti piano, quasi indietro».
In effetti, a voler rispettare i cosiddetti tempi tecnici, solo il prossimo anno partirà la progettazione preliminare, solo nel 2010 saranno aperti i cantieri per i sondaggi geologici, solo nel 2012 si avrà il vero avvio dei lavori. Nulla per cui dobbiamo stracciarci le vesti, un’impresa di quella mole esige anni, quando va bene. Speriamo che vada bene. E che il calendario degli adempimenti non sia sconvolto dal solito ricorso al solito tribunale amministrativo.
Il grande rammarico non è per i tempi futuri. È per il tempo sprecato in passato. La Tav è il massimo esempio delle alee cui un’opera pubblica è sottoposta per i veti di campanile o di borgo o di quartiere. Il tipo di veti che è riassunto nella formula inglese «nimby» («not in my backyard», non nel mio cortile). Con l’attuale legislazione italiana i lavori pubblici sono vecchi già prima di nascere: nel nome del dialogo.
Nel nome del decisionismo suggerisco invece a Berlusconi e a Gianni Letta di riflettere sulla legge che il premier inglese Gordon Brown ha presentato in Parlamento: un «Planning Bill» in forza del quale, quando un progetto abbia avuto il placet d’un comitato di esperti governativi, gli amministratori periferici o i singoli non potranno fare causa per invalidarlo.

«Per la prima volta - è stato scritto sulla Stampa - uno Stato democratico impedirà ai cittadini di opporsi quando un’autostrada, un aeroporto, una ferrovia, una centrale nucleare o un impianto eolico devono essere costruiti sul loro territorio». Tanta indignazione di puristi del garantismo, al di là della Manica, per questa legge muscolare. Ma confesso che a me piacerebbe di vederla introdotta in Italia.

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