Fa lo sciopero della fame per avere un prestito

È salito in macchina assieme alle due figlie ed è partito da Messina alla volta di Milano. «Ragazze, stavolta voglio andare fino in fondo». Giuseppe Pizzino, 49 anni, titolare dell’impresa «Castello» di Brolo, produce camicie da oltre 40 anni. Di fronte all’ennesimo no della banca al prestito richiesto, non ci ha visto più. E si è piazzato in pianta stabile davanti alla sede centrale di Unicredit, in piazza Cordusio, a Milano. «Non mi muoverò finché non mi concederanno il denaro che chiedo. La mia è un’azienda sana, non c’è motivo per dire di no».
È raro vedere un imprenditore scendere in piazza, per di più da solo, e affrontare una sfida tosta come quella dello sciopero della fame. «E invece io farò proprio così - si infervora Pizzino, seduto su una seggiolina pieghevole di fronte all’impero di Alessandro Profumo -; abbiamo bisogno di quel denaro per rilanciare la nostra azienda. Le banche non ci possono lasciare soli proprio ora che siamo alla fine del tunnel della crisi». Pizzino, affiancato dalle due figlie, Michela e Dorotea, ha la coscienza a posto e snocciola a memoria cifre e dati dei bilanci per dimostrare che la sua è un’azienda sana. «Fatturiamo 20 milioni di euro l’anno e abbiamo chiesto alla banca un prestito da 3 milioni di euro per aprire un nuovo stabilimento. Ci serve a rilanciare l’azienda sul mercato per continuare a essere competitivi e uscire dalla crisi». Gesticolando determinato, l’imprenditore siciliano assicura di poter dare, come garanzia, immobili per un valore pari alla cifra richiesta.
«Le banche - protesta - non credono nel nostro settore, ma siamo tra i pochi marchi made in Italy che producono camicie». E per di più in gioco ci sono trecento posti di lavoro, occupati principalmente da donne. Cento di loro sono già in cassa integrazione. Pizzino, che da una vita lavora con i suoi dipendenti e aveva il padre che lavorava con le loro madri, si sta facendo in quattro per mantenere tutti al loro posto e ha investito già 10 milioni di euro per garantire gli stipendi e fronteggiare la crisi. Ora, però, ha capito che serve la sferzata finale: investire. Solo con macchinari più moderni può abbassare il costo della produzione e tornare a essere competitivo sul mercato. Altrimenti si chiudono baracca e burattini. Ma le banche gli rispondono picche. E i suoi sogni rischiano di finire in fumo. Lui non si demoralizza e ora, armato solo di una bottiglia d’acqua da un litro, rifiuterà il cibo a oltranza per dimostrare ai banchieri la sua tenacia.
E lo fa proprio nei giorni in cui Milano brilla per la settimana della moda, la vetrina per eccellenza del mady in Italy. Ieri notte si è accucciato in un angolino di piazza Cordusio e ha aspettato, paziente, qualche risposta. «Le banche non ci possono mollare così - non si placa - ho chiesto più volte un incontro, non ho contratto debiti, non ho istanze di fallimento, ho tutti i conti in regola, eppure sembra che io non abbia diritto a nessuna assistenza bancaria».
Ieri i funzionari di Unicredit si sono fatti vivi e si sono portati in ufficio il malloppo di documenti che il titolare della camiceria siciliana aveva con sé. «La richiesta - puntualizzano gli uffici della banca - è stata formalizzata solo ora e dal canto nostro ci impegniamo a dare una risposta in tempi brevi. Comunque, abbiamo già concesso all’azienda 150mila euro come anticipo fatture». «Non mi muovo», ribatte Pizzino, esasperato. Vuole portare ai suoi dipendenti una bella notizia. Vuole salvare un’azienda italiana al cento per cento: che compra i tessuti a Bergamo e i bottoni a Brescia. Vuole sopravvivere alla concorrenza spietata dei cinesi e conservare la qualità delle camicie.


Nel sito della sua azienda, Pizzino lancia una campagna promozionale per i clienti, intitolata «Allegri d’autunno». Lui ci prova, in tutti i modi, a portare un po’ di allegria a trecento famiglie che aspettano il verdetto.

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