Fa uscire l’ergastolano che si dichiara depresso

Ci aveva già provato, ma gli avevano respinto la domanda. Poco male. Perché non riprovarci? Andrea E., ergastolano e autore di diversi omicidi, aveva studiato il sistema penitenziario e aveva individuato una possibile crepa nel muro della legge che sbarrava, invalicabile, il suo desiderio di tornare nel mondo. Riproporre la stessa istanza, la stessa domanda di scarcerazione, nel periodo estivo – quello che i tecnici chiamano feriale – quando i giudici di sorveglianza vanno in vacanza, come tutti gli altri mortali, e un solo magistrato, che per di più non conosce bene le diverse situazioni, deve dividersi fra numerosi istituti di pena. Dai e dai, perché non insistere? Andrea soffriva da tempo di una grave forma di depressione. Si sa come vanno questi disturbi: salgono e scendono come le onde del mare. Nell’estate del 2007 il malessere si ripresenta in tutta la sua ferocia. In realtà il detenuto, in cella in una città dell’Emilia Romagna, non fa una specifica domanda; no, la segnalazione arriva direttamente dal carcere. Depressione. E che fa il giudice che ha le chiavi delle celle? Come si comporta? Scarcera l’ergastolano, senza approfondire il caso. E gli concede, sia pure in forma provvisoria, quello che si chiama «differimento della pena». Vale a dire che, in teoria, quella persona tornerà in galera se e quando starà meglio. Figurarsi! Facile immaginare le polemiche sui giornali: un ergastolano a spasso perché gli è stata diagnosticata la depressione. Secondo la Disciplinare, il provvedimento poggia su «un presupposto erroneo: credere che sia sufficiente una patologia di carattere psichiatrico (presupposto non contemplato dalla norma applicata che invece prevede la sussistenza di una grave infermità fisica)» per spostare una persona all’aria libera. Quella malattia non c’è. C’è invece la spia accesa dall’ufficio sanitario del carcere del centro emiliano che sottolinea il riaffiorare di un profondo stato depressivo e suggerisce quindi un regime di «grande sorveglianza». Il giudice del penitenziario dovrebbe sapere, in teoria, cosa fare: analizzare in profondità quei sintomi, così da raccogliere indizi e prove sulla gravità del male che attanaglia il detenuto. Non lo fa. E lo libera. Si ritrova così nei guai. E si difende chiamando in causa la stagione: d’estate pochi fanno molto. Forse troppo. Lui aveva in gestione tutti i penitenziari dipendenti dalla giurisdizione di zona. Ma d’altra parte lo sconcerto è grande: come è possibile sospendere l’esecuzione di una pena così alta solo sulla base di una semplice comunicazione? Con un provvedimento striminzito. Anzi, per dirla con il Csm, «laconico». Il tutto sulla base di un non meglio precisato «stato depressivo». «Non si trascuri» insiste il Csm «che Andrea E.

era considerato persona pericolosa e aveva subito una condanna all’ergastolo e quindi era auspicabile che il giudice trattasse la vicenda con maggior prudenza. Un minimo di professionalità gli avrebbe consentito di esaminare meglio la questione». Il 4 aprile 2008 il giudice viene punito con l’ammonimento.

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