Faccia a faccia con Curcio "Ho un segreto per Indro..."

L’inviato del "Giornale" resta solo con il capo delle Br appena catturato: "Lei lavora per Montanelli? Devo chiederle un favore"

Faccia a faccia con Curcio "Ho un segreto per Indro..."

Barba nera, capelli un po’ scomposti, infagottato in un maglione girocollo di lana grigia, sotto il quale sfilato dalla manica tiene il braccio sinistro ferito, Renato Curcio, ideologo e «cervello» delle Brigate rosse, è seduto sul divanetto a due posti di finta pelle marrone nell’ufficio del capitano Giovanni Digati del nucleo investigativo dei carabinieri di Milano. Sono entrato (senza sapere che all’interno ci fosse Curcio, parola d’onore) con la sicurezza e la disinvoltura di chi ignora: uno dei sottufficiali (tutta gente che non conosco e mai vista prima, proveniente sicuramente dalle sezioni operative delle compagnie o delle tenenze cittadine), dopo essersi alzato per chiudere la porta dell’ufficio, che io per lo stupore e la sorpresa ho lasciato semiaperta, mi cede rispettosamente la sua sedia posta di fronte al prigioniero che appare calmo e distaccato. Di là nell'animata confusione del corridoio, chiamano a gran voce un capitano. «Forse stanno cercando lei», mi dice uno dei sottufficiali incaricati di sorvegliare Curcio. Rispondo quietamente e sfrontatamente di lasciare che chiamino e aggiungo di non essere colui che cercano. Del resto, è la verità, sia pure in completa. Sono un giornalista - inizio subito rivolgendomi a Curcio - sono entrato senza sapere che lei fosse in questa stanza».

C’era un brigadiere che lei aveva ferito, disteso sul pavimento del pianerottolo, non si sapeva ancora se il sottufficiale fosse vivo o morto; gli altri non avevano potuto soccorrerlo perché lei continuava a sparare e avvicinarsi per trascinarlo al riparo significava essere falciati dalle raffiche. Non ha propriopensato, quando è uscito indietreggiando e con le braccia alzate che qualcuno dei colleghi del ferito potesse sparare?
«Mi creda, non ci ho pensato. Non avevo paura di morire, se è questo che vuole chiedere e sapere. Ero cosciente di una cosa sola: che mi stavo arrendendo ai carabinieri e che i carabinieri mi avevano preso. Tra le molte scelte che fa uno che decide di fare il rivoluzionario guerrigliero c’è anche quella di accettare la morte, che può arrivare in qualsiasi momento e in qualsiasi circostanza».

E ora che cosa pensa?
«Che tra non molto sarò in carcere e che in carcere ricomincerò a studiare: finalmente ne avrò il tempo».

E della vostra organizzazione, delle Brigate rosse, che cosa può dirmi? Quanti siete?
«Non lo so, dico la verità».

Non lo sa o non vuole rivelarlo?
«No, non è che non voglia rivelarlo. So soltanto che siamo in molti. Tanti che non potete nemmeno immaginare: di ogni categoria, di ogni ceto ed estrazione e posizione sociale. Siamo cresciuti subito e continuiamo a crescere: ora specialmente più rapidamente di prima. Ma nessuno di noi può dire numericamente quanti siamo. Prima di arrivare alla guerra di trincea nemmeno i vietcong sapevano in quanti erano.Noi altrettanto. I rivoluzionari, del resto, come ben saprà, riescono a contarsi soltanto a rivoluzione vinta e finita».

Curcio si sofferma un attimo. Poi chiede: «Lei è giornalista. Di quale giornale?». Del «Giornale nuovo».
«Cioè quello di Montanelli».

Esatto, quello diretto da Indro Montanelli.
«Può farmi un favore?».

Volentieri, purché sia una cosa possibile. Alzandosi faticosamente, Renato Curcio mi si avvicina quasi a parlarmi in un orecchio e mormora velocemente una frase.
«Il favore che le chiedo - soggiunge poi a voce alta - è quello di dirglielo in privato».

Sconcertato e stupito più di quanto sia rimasto 45 minuti fa, quando con la disinvolta sicurezza di chi sbaglia sono entrato nella stanza «proibita», lo guardo interrogativamente.
«Ha capito benissimo -mi dice ancora Curcio - ho detto esattamente quello che ha sentito. Glielo dica in privato: se lo pubblica sul Giornale smentisco. Nessuno, oltre lei e me, ha udito, non ci sono testimoni».

È l’una e quindici minuti del 19 gennaio. Nella stanza arrivano improvvisamente, come era del resto da attendersi, visitatori importanti e autorizzati; il colonnello Cetola, il tenente colonnello Arciola, il maggiore Cucchetti, i capitani Digati, Ficherae Chiarello. Curcio sta per essere trasferito a San Vittore. Mi eclisso alla chetichella. Vado via pensando alla faccia che farà Montanelli quando gli riferirò in privato ciò che Curcio mi ha detto.

20 gennaio 1975

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