Alla faccia del mistero

È spuntato dal nulla, con la sua pancia prominente e quel mezzo sorriso che sembra una presa in giro. Ma chi è?

Mi capitò di vederlo la prima volta in un bar in riva al mare, proprio di fronte alle onde, nella piccola città ligure dove sono nato.
Era un uomo della mia età, piccolo di statura, con lo stomaco prominente del gran mangiatore di pasta o del gran bevitore di birra, gli occhi bovini, vestito con una giacca blu, la camicia bianca, la cravatta annodata con cura, ma senza riuscire a dare la minima impressione di eleganza. Mi guardò, mi abbozzò un saluto, un mezzo sorriso. Chi era, perché quello sguardo di intesa, di quasi complicità? Provai quasi un senso di fastidio. Non mi venne in mente se e dove l’avessi mai conosciuto. Risposi con un gesto rapido del braccio, me ne guardai bene dal mettermi a parlare con lui. Chiamatela freddezza, chiamatela indisponibilità, come volete. Sono abituato alle accuse di mia moglie. Resisterò a quelle dei miei lettori.
Quando uscii da quel bar dove scendevo tutte le mattine a far colazione e a leggere i giornali, mi sentii sollevato. Da dove veniva fuori quel tipo? Intuivo che non era certo uno che avesse letto i miei libri, o che avesse a che fare con il mondo dei libri. Rivisitai vecchie storie di famiglia, rividi nella mente volti di abitanti del quartiere dove ero vissuto sino a diciotto anni, un quartiere di palazzi alti e antichi, di scalinate ripide, di orti chiusi tra muraglioni, e dove tutti si conoscevano e si chiamavano per nome. Ma non mi si chiarì nulla.
E forse non ci avrei più pensato, se non avessi incontrato quel mio coetaneo dalle gambe corte e dallo stomaco dilatato una seconda volta, con un suo nuovo tentativo di saluto, e poi non avessi cominciato a incontrarlo anche a Nizza. Allora, lo confesso, ebbi l’impressione improvvisa e angosciosa che in realtà mi pedinasse, si occupasse di me per non so quale disegno. Non capivo che cosa volesse, da che angolo del mio passato fosse ricomparso.
Una volta, in Rue Alphonse Karr, parlava con due persone, animatamente, ma trovò lo stesso il tempo di sollevare lo sguardo verso di me e di rivolgermi un saluto con un po’ di enfasi in più del solito, come se ci tenesse di fronte ai suoi interlocutori a far vedere che conosceva qualcuno in città. Una volta lo vidi proprio in Rue Massena, la grande isola pedonale di Nizza dove avevo casa. Non avrei dovuto trovarci niente di strano, il mondo passava di lì, tra negozi di ogni genere, caffè, ristoranti, locali notturni, musicanti, statue umane, turisti, torme di variopinti ragazzi delle banlieue e vecchi residenti rivieraschi. Perché non lui?
Quella volta mi venne quasi vicino, chiuso in un impermeabile chiaro che non giovava alla sua linea, e accompagnò il cenno della mano con un ben udibile: «Ciao Conte». Mia moglie rise sorpresa, divertita. Ma che conoscenze avevo mai? La voce era un bel po’ sguaiata, con un forte accento ligure, tipica di uno abituato a parlare quel nostro selvatico dialetto. Dovevo venirne a capo. Ma prima di fermarlo e di chiedergli chi diavolo fosse dovevo riuscire a recuperare nella memoria qualcosa, qualsiasi cosa su di lui.
Mi misero sulla strada la grana della sua voce e il fatto che mi avesse chiamato per cognome. Capii che dovevo riandare agli anni lontanissimi della scuola media cui eravamo iscritti noi del centro della città e diversi ragazzi che venivano dalle vallate. Sarebbe improprio parlare di discriminazione, lasciamo le parole grosse ai drammi sanguinosi della nostra povera società. Ma era vero che chi stava in riva al mare guardava sempre con un po’ di supponenza chi abitava nelle campagne dell’entroterra. Un senso antipatico e stupido di superiorità, che bastava niente a cancellare, e niente a far esplodere.
Di colpo lo seppi. Quell’uomo che sembrava pedinarmi era stato un mio compagno di scuola, uno della IA, un ragazzino dall’aria furba e insieme smarrita, per cui l’italiano doveva essere una lingua straniera e le ore di lezione una immedicabile tortura. Mi tornò alla mente tutto. Fuorché il nome di battesimo. Ricordai soltanto quello del registro di classe. Asseretto.
Era lui. Il protagonista di una lezione di storia che non sapevo come avevo potuto dimenticare. Interrogato dal professore se l’Italia fosse una repubblica o una monarchia, Asseretto si era alzato rispettosamente dal banco, aveva guardato in alto, a destra, a sinistra in cerca di ispirazione divina o di qualche suggerimento terreno. Poiché nessuna delle due cose arrivò, oscillò un po’ il capo sul collo, esitò, diventò tutto rosso e balbettò: una monarchia. A ritroso, potrei dire che aveva l’attenuante che il celebre referendum era avvenuto soltanto una dozzina d’anni prima. Ma noi, che ci credevamo già tutti statisti, scoppiammo allora in un boato di risate che lo annichilirono.
Infine, lo ritrovai anche a Sanremo. Era incredibile, era davvero come se mi seguisse, come se per qualche strano caso vivessimo in geografie parallele. Una mattina, mi capitò vicino di tavolo alla Pasticceria del mio quartiere. Così fu inevitabile, mi parlò e dovetti ascoltarlo. Asseretto abitava non lontano da me. Ma in un appartamento di cui declinò subito la metratura, il doppio di quella del mio. Solo. Triste. Si dilungò sulle sue condizioni esistenziali presenti, non accennò al suo lavoro. Naturalmente non mi chiese nulla del mio. Voleva offrirmi la colazione con una insistenza un po’ esibita. Rifiutai ma non si offese. E mi lasciò a leggere i giornali partendo su un gigantesco Suv nero.
Stavolta non ebbi troppo tempo per chiedermi cosa faceva di mestiere il vecchio alunno della IA. La mattina del giorno seguente, seduto al medesimo tavolo, aprendo la pagina della cronaca locale, lo appresi con dovizia di particolari. C’era una sua foto, e sopra il titolo annunciava il suo arresto come ricettatore. Ebbi un brivido. L’avessero arrestato ventiquattro ore prima, l’avrebbero trovato con me. A chiacchierare, il ricettatore e lo scrittore, compagni di scuola sfioratisi a lungo come ombre e ritrovati per un attimo.
Mi è sempre stato naturale temere, disprezzare e condannare in primis i delitti che si esprimono nella violenza fisica. Certo, anche la ricettazione è un crimine, per i giudici, per la legge. Ma non riuscivo a essere troppo severo con il povero Asseretto. Prendiamo per esempio l’amore. Non nascondiamo tutti, in amore, qualcosa di rubato? Tutti rivendiamo qualcosa che non ci appartiene al mercato del cuore. E uno scrittore, non maschera i propri furti da tutti gli scrittori che vengono prima di lui, e non rimette in circolazione gli oggetti rubati? Avrei potuto io scrivere questo racconto senza rubare a Mario Soldati, di cui ebbi l’onore di essere amico? La verità è che le nostre vite si incrociano con tante altre, che nessuno di noi è immune da colpe, e che è degno di rispetto solo chi sente pietà per chi sbaglia e chi cade.


Non posso dimenticare lo sguardo triste di Asseretto, quella mattina, mentre mi parlava della sua casa troppo grande e della sua solitudine, accendendosi una sigaretta con un accendino d’oro. Mezzo secolo fa lo avevo deriso, e ora lo compiango. A proposito, chissà se avrà imparato qual è l’assetto istituzionale dell’Italia, ammesso che per gli accusati di ricettazione valga qualcosa.

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