«Facio», il partigiano fucilato dai compagni

Eroe della Resistenza, Dante Castellucci fu ucciso nel ’44 e la sua morte attribuita ai fascisti. Ora un libro rivela: la regia fu del Pci

«Facio», il partigiano fucilato dai compagni

Dante Castellucci, il partigiano «Facio», giovane e leggendario comandante del distaccamento «Guido Picelli» operante in Lunigiana, venne fucilato all’alba del 22 luglio 1944 nei boschi sopra Adelano, nel Pontremolese. Alla sua memoria è stata concessa nel ’63 una medaglia d’argento al valor militare. Ma il partigiano «Facio» non cadde sotto il piombo tedesco o repubblichino in uno dei tanti rastrellamenti che imperversarono su quei monti tormentati.
È ben noto che la Resistenza non può essere sottoposta a critica, pena l’infamante accusa di «revisionismo», accusa che colpisce anche storici di provata fede «resistenziale» e di altrettanto provata onestà (vedasi la nota censura nei confronti del libro di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia, rifiutato da Einaudi e poi pubblicato da L’Ancora del Mediterraneo). È altrettanto noto che dai primi mesi del ’44 in poi la leadership del movimento partigiano fu saldamente in mano alla dirigenza comunista, ben decisa a proseguire in una propria ottica della guerra, eliminando senza pietà i compagni di lotta che ne intralciavano la strategia.
Bastano, a confermare l’egemonia comunista e la ferocia con cui essa venne mantenuta, episodi come la fine del capitano Ugo Ricci, ucciso in un agguato dai contorni oscuri il 3 ottobre ’44 a Lenno, sul Lago di Como, e la cui tragedia è stata rievocata da Luciano Garibaldi in I giusti del 25 aprile (Ares). Nessun dubbio invece sulla volontà di eliminare i cinque partigiani non comunisti della «missione Strasserra», massacrati a Portula, nell’alta Valsèssera, il 26 novembre ’44 per ordine del capo comunista Francesco Moranino, in arte «Gemisto». E nessun dubbio sulla volontà criminosa che presiedette all’eliminazione di due delle mogli degli uccisi (vedasi per altri particolari Pci. La storia dimenticata, di Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, Mondadori).
La vera storia del partigiano «Facio» è rimasta nascosta sotto un cumulo di menzogne ufficiali, anche se la verità è stata sempre ben nota agli uomini che combatterono con lui come alla sua compagna Laura Seghettini, testimone oculare della tragedia di Dante Castellucci. Documenti e testimonianze sono stati anche pubblicati ma sono rimasti confinati nella memoria locale, debole cosa nei confronti della roboante motivazione della medaglia al valore: «Valoroso organizzatore della lotta partigiana, incurante di ogni pericolo, partecipava da prode a numerose azioni cruente. Scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente: sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto».
Sulla tragica - ma anche romantica - figura di Dante Castellucci torna ora, con un preciso esame delle fonti storiografiche e l’ascolto degli ultimi testimoni diretti dei fatti, Carlo Spartaco Capogreco nel saggio Il piombo e l’argento (Donzelli, pagg. 240, euro 24,50, da oggi nelle librerie). Affascinante figura di un giovane calabrese (era nato a Sant’Agata d’Esaro, in provincia di Cosenza, nel ’20), emigrato bambino in Francia con i genitori, colto e preparato anche se autodidatta, autore di poesie e commedie. Rientrato in patria, Dante si legò d’amicizia con un altro fiabesco personaggio, Otello Sarzi, appartenente a un’antica famiglia veronese di burattinai ambulanti che si trovava in Calabria al confino di polizia per le sue idee antifasciste. Fu lui a trascinare Dante in Emilia e a fargli conoscere la famiglia di Alcide Cervi (il padre dei fratelli Cervi). Divenuto il suo braccio destro, fu catturato in uno scontro con i militi fascisti il 25 novembre ’43, riuscì a fuggire, raggiunse la Lunigiana e, dopo la morte in combattimento di Fermo Ognibene, assunse la direzione del distaccamento «Picelli». Il coraggio di «Facio» si trasformò in leggenda dopo la cosiddetta «battaglia del Lago Santo», una bellissima e isolata località dell’Appennino parmense dove «Facio» e uno sparuto gruppo di partigiani respinsero l’attacco di 80 militi della Gnr e di 30 militari tedeschi, suscitando persino l’ammirazione del nemico.
È forse iscritta nella sua tendenza all’autonomia e nella sua visione politica inclinante al «socialismo umanitario», la tragedia di «Facio», inviso al commissario politico del «Picelli», il partigiano «Salvatore», al secolo Antonio Cabrelli, un militante comunista rifugiatosi a Mosca durante il fascismo dove aveva frequentato la scuola di partito e poi inquadrato, durante la guerra di Spagna, nelle Brigate internazionali di stretta osservanza moscovita, responsabili della morte di tanti anarchici spagnoli. Per eliminare un partigiano «di non sicura fede» bisogna fabbricare delle prove. E Cabrelli le trova in una supposta (e sempre smentita) appropriazione da parte di «Facio» del materiale e del denaro proveniente da aviolanci alleati.
Come scrisse Maurizio Bardi sul mensile Lunigiana Sera nel 1999, «il 20 luglio ad Adelano si riuniscono i capi della divisione ligure appena costituita: Salvatore riesce a convincerli a nominare un tribunale per processare Facio. Sono in diversi a capire che Salvatore è poco più di un esecutore, anche se molto interessato, di decisioni prese altrove...». Sarà un «tribunale di guerra» presieduto da Antonio Cabrelli e formato da Luciano Scotti, Renato Jacopini, Primo Battistini, Giovanni Albertini e un certo «Alda» (forse Nello Scotti, padre di Luciano) a decidere la condanna a morte di Dante Castellucci, fucilato all’alba del 22 luglio da un plotone composto da partigiani del battaglione «Signanini» agli ordini di un fantomatico «Comando unico» spezzino. Ma secondo Laura Seghettini la condanna fu pronunciata in nome del Partito comunista. Poche ore dopo, Antonio Cabrelli visitò i distaccamenti del «Picelli» comunicando agli sbalorditi partigiani che il loro comandante era stato processato e fucilato perché si era appropriato di mezzo milione di lire sganciato dagli aerei alleati.
Così morì il partigiano «Facio», a 24 anni.

Il resto è la storia di una menzogna lunga sessant’anni, costruita dal cinismo della dirigenza comunista, complice l’omertà di molti ex compagni di Castellucci che conoscevano la verità. Per questa verità Laura Seghettini si è battuta tutta la vita.

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