Per due volte nei giorni scorsi, in seguito a due gravi episodi che tutti conosciamo, il presidente americano Obama ha messo in evidenza le falle del sistema di sicurezza americano.
Non è la prima volta che ci succede, da nove anni a questa parte, di osservare questi difetti, che spaziano dal sistema informativo all'organizzazione dei corpi militari fino a una non chiara direzione strategica delle operazioni di guerra.
Sono molte le domande e i dubbi che sorgono in merito.
Una di queste è se gli obiettivi dichiarati di queste operazioni corrispondano a quelli reali - e in ciò molta letteratura e molto cinema ci accompagnano in questi anni -. Un'altra è se i vertici militari americani (ma il discorso si potrebbe ripetere per altri importanti paesi) obbediscono davvero al Presidente e si uniformano alla sua politica. Infine, mi chiedo se esercito e servizi segreti possano variare la loro idea di «difesa del Paese» a seconda degli orientamenti dei diversi presidenti e relativi governi.
L'immaginazione romanzesca arriva poi a congetturare situazioni di perenne instabilità governata (che esista una governance dell'incertezza è infatti una delle poche certezze quando si osserva il planisfero politico) da uomini cinici, potentissimi ma sconosciuti quasi a tutti, che non esitano a sacrificare anche molte vite umane pur di lanciare segnali a chi è in grado di leggerli.
Insomma, anche dietro quelli che possono apparire difetti nell'organizzazione della sicurezza potrebbe nascondersi, questo lo pensano molti lettori di quotidiani, intenti oscuri. Il riverbero immediato di questi sospetti sull'uomo comune è un senso di smarrimento, il pensiero di essere in balia di forze alle quali dell'uomo comune importa poco o nulla.
Eppure c'è, in tutto questo, un risvolto positivo, al quale è necessario prestare la massima attenzione. Il risvolto è questo, che se anche gli episodi deprecati dal presidente Obama fossero dovuti a un contrasto politico, o fossero addirittura segnali - come succede al cinema - in risposta, che so, a una riforma o a un provvedimento ritenuti in contrasto con gli interessi della casta militare, ebbene: anche se così fosse, tutto ciò può comunque accadere solo in un Paese libero.
Non dico «splendidamente libero», e neppure «completamente libero». Sappiamo tutti quante limitazioni della libertà vengono poste in tutti i campi, politico sociale o culturale, sappiamo di quale suicidio è capace la libertà umana nei Paesi ricchi, di quale obesità spirituale siano capaci i Paesi nei quali i divieti scarseggiano.
Eppure un Paese in cui un presidente e un esercito non sono l'espressione della stessa classe dirigente, non sono l'emanazione dello stesso soggetto detentore del potere è ipso facto un Paese libero, ossia - prima di ogni altra definizione più puntuale - un Paese in cui la sovranità e la legittimità non appartengono né al governo né ai vertici militari né alle strategie dei servizi segreti ma continuano a essere patrimonio esclusivo del popolo, della società.
Così un esercito potrà anche dominare il mondo, ma la legittimità (e quindi la ragione) non sarà mai una sua proprietà.
Questa è la ragione fondamentale per cui sono e continuo a essere filoamericano. Non perché io stimi il popolo americano più di quello cinese o di quello iraniano, ma perché l'America - ossia il Paese che, ci piaccia o no, continua a dominare il mondo - non potrebbe negare questo principio di legittimità senza suicidarsi.
Io non amo le egemonie, tendo all'anarchia e provo una naturale avversione per i capi. Inoltre non provo nessun particolare trasporto per Obama. Tuttavia, visto che le egemonie devono esistere, almeno per adesso, mi sento di preferire quella americana a tutte le altre ricette o formule di possibili egemonie che spuntano qua e là nel mondo.
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