Il falsario che dipinse il più bello dei Vermeer

La storia di un falsario si può leggere semplicemente come la storia di un truffatore. In realtà ha molti e diversi aspetti che illuminano di luce ambigua il mercato dell’arte e la critica. In genere, la scoperta di clamorosi falsi mette in discussione proprio i critici e la loro sicurezza di essere i soli garanti dell’autenticità di un’opera, sulla base del proprio infallibile intuito, prima ancora della conferma scientifica. La famosa beffa delle false teste di Modigliani, scolpite nel 1984 da tre studenti burloni, fece piangere di rabbia Dario Durbé, allora soprintendente della Galleria d’Arte Moderna di Roma. Ma prima di quelle lacrime aveva mandato in visibilio numi acclamati come Carlo Giulio Argan e Cesare Brandi. E quanti degli splendidi fondi oro autenticati dal celebre Bernard Berenson sono opera di quel raffinato maestro della falsificazione che fu il senese Icilio Federico Joni (1886-1946)?
Ma il falsario? Chi è in effetti? Quali motivi lo spingono, oltre all’avidità di guadagno? Perché si nasconde dietro un altro artista, invece di uscire allo scoperto? Quali tortuosi percorsi psicologici lo hanno condotto a identificarsi con qualcuno che è vissuto e ha dipinto secoli prima? Cerca di dare una risposta a queste domande il libro Io ero Vermeer - Storia del falsario che truffò i nazisti di Frank Wynne, pubblicato ora in Italia da Ponte alle Grazie (pagg. 244, euro 16,50). Di Han van Meegeren, l’olandese che piazzò sul mercato alcuni bellissimi e osannati falsi del pittore di Delft, hanno scritto in molti: dal suo primo biografo Lord Kilbracken a Irving Wallace (The man who swindled Goering) fino all’italiano Luigi Guarnieri (La doppia vita di Vermeer, Mondadori 2004). Ma l’affascinante indagine di questo giornalista irlandese penetra nel profondo della personalità del falsario, scende in quell’Urwelt della psiche in cui il falso è stato concepito.
Han van Meegeren era un eccellente pittore, nato nel 1889 nella città anseatica di Deventer, «sfortunatamente - scrive l’autore - era arrivato con cinquant’anni di ritardo». Era affascinato dai grandi maestri del Secolo d’Oro olandese: Rembrandt, Frans Hals, Pieter de Hooch, Gerard Ter Borch. E Jan Vermeer, soprattutto, il più enigmatico, con le scarse notizie sulla vita e le poche opere lasciate. Ma si affacciò alla pittura nel Novecento delle avanguardie. I critici lo definirono non più di un bravo esecutore. Era un bell’uomo, morbosamente sensibile e molto consapevole di sé: lo sprezzante atteggiamento della critica provocò in lui un bruciante desiderio di rivalsa. La cercò negli amori, nell’alcol, nella droga, ma soprattutto nell’ossessiva ricerca di un modo per sbugiardare i suoi detrattori e imporsi per quello che riteneva di essere: un grande artista.
Fu negli anni Trenta, dopo aver lasciato l’ingrata patria per trasferirsi sulla Costa Azzurra, che concepì l’idea di un’immane beffa: avrebbe dipinto un falso quadro di Vermeer in modo così perfetto che nessuno avrebbe potuto scoprire l’inganno. Poi avrebbe clamorosamente rivelato di essere lui l’autore. Per arrivare a quel falso, van Meegeren studiò a fondo l’opera e la vita di Vermeer, rintracciò sul mercato i pigmenti originali del Seicento, acquistò una tela d’epoca da cui cancellò la pittura, escogitò un sistema infallibile per ottenere la craquelure provocata dal tempo e per vanificare le tecniche allora in uso per controllare l’età della pittura. Ma non bastava: escogitò anche un soggetto credibile sulla base degli studi più accreditati che ritenevano Vermeer avesse dipinto in gioventù soggetti religiosi. Uno di questi dipinti, secondo gli studiosi, doveva esistere da qualche parte. «Nessun critico - scrive Frank Wynne - avrebbe resistito alla tentazione di scoprire un dipinto che confermava una teoria a lungo accarezzata». Ci volle più di un anno e poi la bellissima Cena in Emmaus, presentata da Han come un fortunoso ritrovamento, fu salutata con emozione come un meraviglioso Vermeer prima maniera dal più grande critico d’arte olandese, Abraham Bredius. Era il 1937.
Il fatto che poi van Meegeren non abbia rivelato il falso anzi ne abbia prodotto altri, è dovuto probabilmente a più fattori. Forse il clamore internazionale, forse il suo stesso sbalordimento nel vedere i visitatori in estasi davanti al suo quadro appeso in una sala del Museo Boijmans di Rotterdam, forse una sorta di irresistibile identificazione, forse l’avidità di guadagno. Fatto sta che negli anni seguenti i ritrovamenti di Vermeer creduti persi, si moltiplicarono. E benché molti cominciassero a nutrire dubbi, nessuno pensò di sottoporre i dipinti a esami scientifici. Troppo prestigiosa era l’opinione dei grandi critici, per metterla in discussione.
Forse i Vermeer di van Meegeren sarebbero ancora oggi ritenuti autentici se durante la guerra uno dei suoi falsi non avesse attirato l’attenzione dell’avido Goering. Tramite un intermediario, van Meegeren gli rifilò un Cristo con la donna sorpresa in adulterio, fatto di fresco. L’ex Feldmaresciallo del Reich, suicida a Norimberga, non seppe mai che la «crosta» avrebbe da un lato salvato van Meegeren dall’accusa infamante di collaborazionismo, dall’altro lo avrebbe costretto a uscire allo scoperto. Arrestato come traditore nel dicembre del 1945 e sottoposto a stringenti interrogatori, Han alla fine cedette: «Non ho collaborato col nemico vendendo a Goering un capolavoro dell’arte olandese, gli ho solo rifilato un falso. Dipinto da me». Non gli volevano credere, i critici strepitavano che loro non si sbagliavano mai. Han dovette dipingere un altro «Vermeer» per convincerli.
Fu condannato a una pena modesta e morì d’infarto il 29 dicembre 1947.

Il suo quadro è ancora al museo e un celebre critico d’arte belga, Jean Decoen, confessò che durante il processo aveva rabbrividito all’idea che potesse essere distrutto. Almeno due quadri erano «i più commoventi che Vermeer avesse mai dipinto».

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