
Mai avrebbe immaginato James Joyce che la sua città, Dublino, a cui sarebbe stato perennemente legato da un rapporto difficile di amore e odio, avrebbe celebrato la giornata in cui si svolge il suo romanzo più celebre, il torrenziale Ulisse, ribattezzandola Bloomsday, con molteplici iniziative nei luoghi descritti tra le sue pagine. Eppure, non è che al grande autore dublinese abbiano mai fatto difetto sicurezza e convinzione nei propri mezzi.
Se si tiene conto del fatto che Joyce visse tra il 1882 e il 1941, le sue smargiassate e intemerate letterarie e umane fanno tuttora scalpore. Vero è che tanti grandi artisti hanno pencolato tra incertezze e bancarotta, da un lato, e incrollabile fiducia nel proprio talento e in una sorte che, inevitabilmente, prima o poi si sarebbe mostrata benevola, dall'altro.
Di inchiostro e di carta per tracciare la parabola di uno degli autori più innovativi e istrionici del XX secolo ne sono stati spesi a fiumi, in armonia con il gusto per l'eccesso che ha contraddistinto Joyce fin dagli esordi e che, a ben vedere, affonda le radici in una famiglia numerosissima, cattolicissima, irlandesissima di cui era il primogenito (fatto salvo un fratello morto in tenera età): madre di una religiosità fuoco e fiamme, sempre in dolce si fa per dire attesa; padre inconcludente, umorale, alcolista, propenso agli scatti d'ira; fratelli e sorelle a fare da peso ingombrante, prima, e da traballante ancora di salvezza, poi.
Per raccontare la storia di un grande, talvolta, serve la penna di un grande. Ecco che James Joyce. Una vita (Einaudi, traduzione di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, pagg. 178, euro 19), della sua conterranea Edna O'Brien (1930-2024) autrice controversa, detestata dall'establishment irlandese fino a essere bandita al primo romanzo, Ragazze di campagna (1960), per il ritratto esplicito della sessualità in una società perbenista e retriva non è esattamente una biografia, ma ha la forza dirompente del grande libro. Nelle parole della O'Brien non si trova una successione precisa delle vicissitudini di James Joyce, ma la traiettoria emotiva della sua vita è chiara, a partire dal rapporto con il padre che, a suo dire, invece di far curare sua moglie, l'avrebbe lasciata morire, bevendosi i pochi soldi a disposizione della famiglia.
C'è l'amore contrastato con Nora, conosciuta nel 1904 e sposata nel 1931, e ci sono le città importanti: la provinciale e corrotta Dublino, ovviamente, ma pure Trieste, dove Joyce si rifugiò insieme a Nora, poi Parigi e Zurigo. La spada di Damocle dello sfratto, tra progetti imprenditoriali abortiti e attacchi biliosi di gelosia per Nora, donna ritenuta da tutti infinitamente inferiore a lui sul piano intellettuale, fu una costante. Nemmeno la vicinanza del fratello Stanislaus, fatto venire in Italia più per stemperare uno stato di indigenza assoluto che per ricreare una sensazione di focolare familiare, fu mai in grado di placarlo. Perché la vergogna della povertà è una tara ereditaria irlandese.
Fama e denaro rimasero a lungo una chimera, un traguardo che il superstizioso Joyce riteneva il risultato minimo. E nemmeno scornarsi ripetutamente contro editori che lo snobbavano e gli chiedevano di scendere dal piedistallo e di scrivere qualcosa di più comprensibile ne incrinò mai del tutto le certezze. Quando, dopo un parto travagliatissimo, Ulisse vide la luce e, soprattutto, le stampe, l'esistenza di Joyce avrebbe potuto lievitare. In un certo senso, lo fece, a Parigi, ma paure e idiosincrasie e una propensione agli eccessi non svanirono mai del tutto.
La O'Brien, pur innamorata del genio di Joyce, non gli risparmia feroci attacchi, tacciandolo di opportunismo, sessuomania adolescenziale, immaturità. Ma la "lingua è eroe ed eroina in costante flusso e dotata di sensazionale virtuosismo". In fondo, è proprio quella la qualità più evidente di Ulisse, al tempo stesso "serio e comico, ermetico e lezioso". Eppure, Ulisse uscì in USA solo vent'anni dopo il suo concepimento e procurò all'autore non pochi problemi, a partire da un processo per oscenità, accusa a cui Joyce soleva rispondere che "l'oscenità torna sempre anche nelle pagine della vita". D'altra parte, "aveva sempre saputo che avrebbe attirato guai". A un certo punto, la O'Brien si interroga se, per creare, uno scrittore debba per forza essere un mostro e si risponde di sì: servono cinismo e distacco da certi tratti umani per descriverli in modo tanto brillante. Le recensioni, che Joyce inseguì con disperazione, si divisero tra chi lo esaltava e chi lo snobbava. Malaticcio, depresso e con un occhio sempre più malconcio, Joyce per alcuni contemporanei era un caso clinico, come l'amata figlia Lucia, condannata a ricoveri psichiatrici costanti.
E tale restò fino alla morte, avvenuta a Zurigo, dove è tuttora sepolto.
Secondo un ministro britannico, "l'Irlanda avrebbe continuato a vendicarsi dell'Inghilterra producendo capolavori letterari". La bacchettona Irlanda non avrebbe saputo portare il rispetto dovuto a uno dei suoi figli più illustri ma pure motivo di forti imbarazzi. Il tempo avrebbe in parte aggiustato le cose.