Fare una legge sul fine vita è meglio dell’eutanasia di Stato

Puntuale, la ripresa del dibattito parlamentare sul cosiddetto testamento biologico ha risvegliato l’ostilità delle diverse correnti di pensiero che per ragioni opposte vorrebbero che la legge non arrivasse mai in porto. Da un lato c’è chi non condivide i contenuti del ddl Calabrò: «Meglio nessuna legge di questa legge», e da parte delle opposizioni ci può anche stare. D’altro canto si va invece affermando il partito del «meglio nessuna legge qualunque essa sia», in nome del principio per cui nella dimensione della vita e della morte lo Stato dovrebbe entrare il meno possibile e il minimo indispensabile. Convinzione di per sé sacrosanta: è un confine così intimo e denso di umanità e mistero che entrarvi con una norma non è una scelta che possa compiersi a cuor leggero. Ma ciò di cui alcuni sembrano non rendersi conto è che con la vicenda di Eluana Englaro l’asticella del meno possibile e del minimo indispensabile si è spostata di molto, e drammaticamente.
La morte di Eluana non è stata un caso, tantomeno un atto di liberazione. È stata il grimaldello di una lobby potente che ha pianificato ogni tappa del «caso Englaro», che teorizza la cancellazione degli imperfetti e mira a introdurre l’eutanasia in Italia senza prendersi il disturbo di passare dal Parlamento. Ricordo che me ne parlò per la prima volta Cossiga, nella scorsa legislatura: la Cassazione si era appena pronunciata, e insieme a Cossiga e Schifani, all’epoca mio capogruppo, presentammo una mozione per chiedere al Parlamento di sollevare un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato. Col pretesto di un presunto vuoto normativo, i giudici si sono sostituiti al legislatore. E quando la politica ha provato a reagire, a difesa della sentenza Englaro sono stati eretti sbarramenti di ogni tipo: inammissibile il ricorso delle Camere alla Consulta, fallito il tentativo del governo di varare un decreto, vanificato dalla morte di Eluana lo sforzo di approvare una legge in extremis.
A Udine, insomma, si è resa evidente la sopraffazione di burocrazie, magistrature e gruppi di pressione ai danni della politica e della sovranità popolare. Il mezzo è l’affermarsi di una giurisprudenza creativa che si sostituisca alla legge, laddove nel nostro ordinamento è il legislatore a dettare le norme che il magistrato poi applica. Il fine è l’introduzione surrettizia dell’eutanasia. Di mezzo c’è l’impegno del Parlamento a riaffermare la sovranità del popolo; e anche se l’idea di legiferare sulla vita e sulla morte non ci piace, è l’unico modo concreto per evitare che a farlo sia una élite di ottimati privi di legittimazione. Se dopo Welby ed Eluana (casi diversissimi ma simili nella loro dimensione pubblica) la campagna si è fermata, è solo perché la politica si è assunta le sue responsabilità anche se su certi temi avrebbe preferito non intromettersi. Se ci arrendiamo ora, il prossimo caso giudiziario sarà dietro l’angolo e a quel punto avranno vinto gli altri.
È un lusso che non possiamo permetterci. A costo di attirarci gli strali di personaggi vari fra i quali, per sofisticatezza di stile e confusione di idee, si è distinto Luigi Manconi. Avvinto da qualche retaggio vetero-totalitario, ha messo sullo stesso piano i pazienti in grado di intendere e di volere e quelli in stato di incoscienza, sostenendo in pratica che non si possa negare ai primi ciò che è consentito ai secondi. Gli sfugge un dettaglio, che ben simboleggia quella «bioetica di Stato» che Manconi attribuisce alle intenzioni altrui senza accorgersi di quanto sia invece radicata nelle proprie: una persona può suicidarsi ma non può chiedere a qualcun altro di dargli la morte, tantomeno «ora per allora».
Manconi ha scomodato anche il concetto di carità e sul punto mi preme sgomberare il campo da un equivoco. Il caso Englaro non ha nulla a che vedere con l’immagine intimistica e caritatevole della rinuncia ad accanirsi e a prolungare invano la sofferenza di una persona cara in stadio terminale. Il caso Englaro ha trascinato il confine tra la vita e la morte nell’agone dello spazio pubblico. Il caso Englaro non è stata solo la morte di una persona, ma anche il tentativo di trasformare quella morte nell’affermazione di un paradigma valido per tutti. Non si è staccato un sondino, ma si è preteso che a staccare la spina fosse lo Stato con una sentenza di tribunale.

E se così stanno le cose, ce n’è abbastanza per rendersi conto che per chi ha a cuore la libertà della persona non c’è spazio per troppi sofismi: si deve fare di tutto per approvare questa legge.
*vicepresidente dei senatori Pdl

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