Fascino e mistero della Sanremo 7 ore di attesa per un elettrochoc

Hanno voglia di dire che non ci sono grandi salite, che oggigiorno le strade sono passatoie, che gli atleti sono preparati come superuomini: sono tutte mezze verità, ma la vera verità è che trecento chilometri in bicicletta restano trecento chilometri in bicicletta. Quasi otto ore. Come una giornata in fabbrica. Tutto questo è la Milano-Sanremo, un marchio di qualità del made in Italy, uno degli ultimi luoghi del nostro sport che ancora odorano di mito e di epopea.
Sì, hanno un bel dire che la Sanremo è una corsa facile, velocissima, perché non ha una montagna vera da scalare, ma soltanto Capi da pedalicchiare. Quello che può essere visto come un limite è anche il suo più grande pregio: non solo è la corsa più lunga, ma è anche la più stravagante e la più eccentrica di tutte. Per sette ore può tramortire di noia, ma con un quarto d’ora finale può diventare forte come un elettrochoc. Dal Poggio al lungomare di Sanremo, esattamente 9,9 chilometri, gli ultimi dei 298 totali: qui, dopo la lunga rosolata a fuoco lento, la Milano-Sanremo viene servita flambée. Una fiammata alta e spettacolare, che cattura e incanta come un fuoco d’artificio, che sveglia e rianima anche il più rintronato dei catatonici.
Imperdibile, il finale della Sanremo. Una furibonda rissa di scatti e di controscatti sulla salita, in mezzo alle serre dei gerani, quindi la picchiata incosciente e suicida per guadagnare poche decine di metri, con il fondato rischio di lasciare un po’ di cotenna sbrindellata sulle lamine del guard-rail. La Sanremo è tutta qui. È questa. Piace per questo. Bisogna giocarsi il piatto in pochi attimi, dopo un’intera giornata a rimasticare chilometri. O la va o la spacca. O tutto o niente. Statisticamente, il più delle volte è niente, perché ormai il gruppo dei supervelocisti è talmente famelico e assatanato da riuscire sempre a catapultarsi sul povero fuggiasco, a poche centinaia di metri dalla meta. Scena crudele e impietosa, quella del gruppo che si avventa sulla preda: ricorda molto l’attacco del ghepardo sulla patetica gazzella, orecchie all’indietro e pelo rasato dal vento, freddezza e furore, trance e cuore in gola, fuggiaschi e inseguitori consapevoli che basta sbagliare l’attimo per vincere o perdere la dura lotta, sempre sul filo dei sessanta all’ora...
Non c’è tempo per ragionare, in questo tempo particolare che è la Sanremo. Bisogna fare tutto e subito, più istinto che calcolo, sperando infine nella giusta congiunzione astrale. L’ultima preda che è riuscita (nel 2008) a scampare la caccia delle belve è Emmenthal Cancellara, lo svizzerone non a caso campionissimo delle cronometro, cioè uomo sovradotato di altissime velocità e inarrivabili ritmi in solitaria. Come lui, prima di lui, indimenticabili i tentativi coraggiosi di Pozzato, nel 2006, o di Tchmil, nel ’99. Salvi e felici per pochi metri e pochi secondi, un niente prima della fine. Ma di regola finisce in un modo più caotico: le belve si spolpano l’antilope e poi se la vedono tra loro, in una bolgia infernale, sublime omaggio alla dura legge del tutti contro tutti, per premiare alla fine il vero capobranco.
Sarà così anche oggi, salvo cada una pioggia talmente torrenziale da diventare decisiva. La Sanremo scaraventa sul Poggio il meglio dell’alta velocità, nell’attesa di vedere ancora una volta se la preda riuscirà a scamparla o se invece sarà un’altra baraonda di gruppo. Nessuno degli specialisti ha voluto mancare. C’è Boonen, che nella sua vita dorata e viziata ha vinto davvero tutto, tranne proprio questa cosa particolare chiamata Sanremo. Ci sarà l’ultimo vincitore, il prodigioso Cavendish, che però stavolta arriva dopo lunghe sofferenze (problemi di denti: è talmente giovane che potrebbero essere quelli da latte). E poi il tornado norvegese di ultimissima generazione, un tizio che Merckx non esita a definire suo erede per le classiche, già noto per quel suo cognome da gelato dietetico: Boasson-Hagen. E poi il superspecialista Freire, la gattamorta che qui ha già vinto due volte. E poi l’armadio Hushovd. A questi, noi opponiamo un Petacchi in versione fantozziana, reduce dal suo inverno di ielle plurime, nonché Bennati, da secoli atteso alla vittoria vera. Più Pozzato, ovviamente, però solo per il blitz solitario.
Riconosciamolo: non è moltissimo.

Dopo il 2009 archiviato senza una sola vittoria vera, percorso netto dai contorni storici, rischiamo di ricominciare allo stesso modo, allungando la striscia. Però attenzione: questa è la Sanremo. Non è solo la corsa più lunga del mondo: è anche la più pazza e la più demenziale. Potrebbe far vincere persino noi.

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