Corso d'Italia 11 era l'indirizzo romano di Emilio e Leonetta Cecchi. Erano andati ad abitare lì a metà degli anni Venti e da allora non si mossero più, la casa della vita, per dirla in breve. Erano coetanei, lui di due anni più giovane di lei, entrambi toscani. La famiglia di Leonetta, nata Pieraccini, era di una borghesia più colta e facoltosa, medici, liberi pensatori, banchieri, rispetto a quella di Emilio, il cui padre aveva un negozio di ferramenta. Allieva di Giovanni Fattori, Leonetta fu sin da giovane una pittrice di talento, ma Emilio a nemmeno vent'anni era già stato arruolato nel giro scapigliato del Leonardo, la rivista di Gianfalco e di Giuliano il Sofista, ovvero i dioscuri Papini-Prezzoli, e più tardi sarebbe stato una colonna de La Voce, la rivista più significativa di quel primo Novecento.
Allo scoppio della Grande guerra, il trentenne Cecchi andò volontario, come un po' tutti gli interventisti della sua generazione letteraria, i Prezzolini, appunto, i Soffici, gli Slataper, i Jahier, i Boccioni, gli Amendola, i Marinetti, gli Ungaretti
L'avvento di Mussolini al potere lo trovò freddo, al punto che sarà fra i firmatari del Manifesto degli scrittori antifascisti ideato da Benedetto Croce, anche se quest'ultimo, sulla genesi del fascismo, avesse più colpe di quanto non volesse ammettere. Discutendone con Cecchi, con la solita, candida brutalità, Ardengo Soffici non andò molto lontano dal vero dicendogli: "È un brav'uomo, ma gli è un coglione. Non si accorge che il fascismo è stato un movimento nato dalla sua filosofia" Nell'antifascismo di Croce, oltre alla solidarietà verso i sentimenti e le idee socialiste dei Pieraccini, la famiglia, appunto, della moglie, c'era poco di ideologico e molto di temperamentale: non gli piacevano le bravate, le squadracce, la violenza, la retorica. Credeva nel proprio sacerdozio letterario e infatti, subito dopo la fine della guerra era stato fra i fondatori della rivista La ronda, ma soprattutto non credeva nelle rivoluzioni e non credeva nel popolo italiano. All'indomani del delitto Matteotti, quando sembra che debba venir giù l'intero quadro politico, dirà al pittore Spadini, suo vecchio e preoccupato amico: "Stai tranquillo, tanto in Italia non succede mai niente, tutto si aggiusta".
Questa lunga premessa aiuta a capire meglio che cosa sia Corso d'Italia 11. Agendine 1930-1945 (a cura di Isabella d'Amico, Sellerio, 998 pagine, 25 euro), ovvero il diario che quotidianamente tenne in quegli anni Leonetta Cecchi, uno spaccato straordinario di che cosa fosse la vita culturale al tempo del fascismo e vista dallo spazio privilegiato di un'abitazione che era un crocevia di scrittori e di artisti, tutti più o meno gravitanti intorno a chi, ora cinquantenne, era ormai da tempo un punto di riferimento della critica e della prosa d'arte, nonché uno dei primi ad aver fatto conoscere in Italia la letteratura e il mondo anglosassone. Quanto a Leonetta, il suo essere ritrattista e paesaggista di riconosciuto valore, donna di ottime letture, buona conversatrice e perfetta padrona di casa, dava a quell'indirizzo una sorta di primazia fra le case romane.
Qualche nome degli amici e/o dei frequentatori della coppia aiuta a farsi un'idea: Cardarelli, Longanesi, Soldati, Bartoli, Barilli, Pascarella, Trilussa, Maccari, Moravia, Volpe, Campanile, Praz, don Giuseppe de Luca, Aleramo, Manzini, Falqui, Morante, Sarfatti, Berenson, Longhi, Bontempelli
Va anche aggiunto che la rete degli incontri si allarga ben oltre la porta di quella casa: ci sono cene, prime teatrali e musicali, mostre d'arte, gite, spettacoli cinematografici, premi letterari, serate mondane.
Il fascismo resta sullo sfondo, una presenza su cui si può ironizzare, ma che non è mai messa in discussione, tanto appare convincente e razionale nel suo essere reale Ciò che però si tende a dimenticare è che per molti di quelli che formano la società intellettuale romana e no Mussolini è "uno di loro". È stato un socialista e un vociano, ha scritto libri e fondato riviste, ha diretto giornali, sa che cosa sono le avanguardie, è stato interventista e ha fatto la guerra. Il rapporto sentimentale con Margherita Sarfatti ha ulteriormente accentuato questa comunanza e con essa l'illusione, per dirla ancora con Soffici, di "poterci parlare a quattr'occhi" e "così accomodare parecchie cose", persino, "di tenere a bada quella donna", la Sarfatti, appunto. Per certi versi, Mussolini dirigerà l'Italia come si dirige un quotidiano: "Sta alle grandi manovre e si occupa degli articoli di Omnibus" mugugnerà Longanesi
Il libro è una miniera di aneddoti, curiosità, cattiverie, perfidie, considerazioni critiche. Vale la pena riportarne qualcuna.
Al filoso Gentile, che ingrana una conferenza dopo l'altra, la moglie fa notare: "Ti sei fatto un po' ciarlatano, Giovanni".
Vincenzo Cardarelli mette in guardia Alberto Moravia: "Lei è un calzolaio di Trastevere che mette in vendita delle vecchie scarpe lucidate a nuovo. Un ragazzo il quale, avendo dello spirito, si crede un genio".
Leonetta Cecchi in sogno si vede morta, investita da un autocarro. Gioca al lotto morte repentina e investimento, ma il solo ambo le pare riduttivo e prova il terno, giocando anche resurrezione. Escono però solo i primi due e il marito le dice: "Vedi che succede a far della retorica?".
A un'esposizione d'arte arriva Josephine Baker e Leonetta commenta: "Tale e quale a Bottai", che è allora il potente ministro delle Corporazioni.
Di Ungaretti si ricorda il suo essere infuriato perché Mussolini tarda a mandargli la prefazione promessa: "Deve capire che sono un suo pari. Anzi sono a lui superiore perché offrendogli questa opportunità fo di lui - uomo volgare - un uomo intelligente e di valore".
La moglie del compositore Casella racconta di un incontro con il Duce: cortese, ma come estraneo alle cose spirituali "Ma certo - replica Cecchi - cosa vuole che gli importi di certe cose. Egli è uno spedizioniere: mette i bolli e spedisce la nazione ai suoi grandi destini; può darsi anche che ci arrivi".
A una mostra di Corrado Cagli alla galleria La cometa, fa la sua apparizione Malaparte, in partenza per l'Africa e in divisa da ufficiale: "È tutto a suo vantaggio perché la sua ricerca nel vestire è sfortunata: sbaglia tutto e volendosi vestire bene si veste malissimo".
Alle prime foto che immortalano il passo romano, Trilussa commenta: "Il passo più lungo della gamba". Longanesi su Amerigo Baroli e la sua paura di sembrare vecchio come pittore: "È in arte uno che si tinge i capelli". Quanto a de Pisis è di Bartoli la definizione di "pittore degli antipasti"
Alberto Moravia, e siamo nel 1938, dice di provare ammirazione per Hitler: "Degli uomini politici del momento è quello che più gli piace perché non gli pare sia mosso da ambizione personale per quello che fa". Don Giuseppe de Luca, e siamo nel 1941, dopo l'invasione tedesca dell'Urss dice che "Hitler è un uomo superiore ad Alessandro Magno e ogni altro uomo politico e militare della storia. La sua logica e la sua potenza sono strabilianti".
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale vede un Cecchi convinto della vittoria finale e che soprattutto "ritiene necessaria e meritata la sconfitta dell'Inghilterra", il che per un anglista come lui, è, se non altro un po' curioso. È una convinzione che dura sino all'invasione dell'Urss, della cui riuscita è talmente sicuro dal darle non più di due mesi di tempo.
Man mano che la guerra va sempre peggio, il diario di Leonetta Cecchi racconta più le difficoltà del vivere, borsa nera, razionamenti, bombardamenti, lutti, che non i grandi fatti tragici, segnalati, sì, ma niente di più: il 25 luglio, l'otto settembre, via Rasella, l'assassinio di Gentile, il rastrellamento degli ebrei La liberazione di Roma, con l'ingresso degli americani, registra, dopo un primo entusiasmo, il fastidio per soldati un po' troppo volgari e prepotenti e ragazze romane un po' troppo disinvolte. Si parla di prospettive repubblicane e Longanesi, che è appena tornato dal Sud ammonisce: "In tanta merda sciolta, almeno la monarchia è una merda solida su cui si può fare arginare qualche cosa". Gli esuli che rientrano in patria lo fanno "con sussiego e importanza" e appaiono "meschini e urtanti".
L'inaugurazione alla Galleria di Roma della prima pittura antifascista vede "i vari Guttuso, Melli, Natilli come i piccoli gerarchi della nuova situazione. E i lavori a soggetto propagandistico restano di spirito prettamente fascista". Moravia pensa di scrivere un Manifesto degli scrittori di sinistra, Elsa Morante gli dice che se lo fa lei si separa, Moravia prima si infuria e dice che lo firmerà proprio per questo, poi si fa conciliante e spiega che, più che altro, è un manifesto "contro Croce". Longanesi lo fulmina: "Soltanto io lo potrei scrivere, perché lui ce l'ha con me. Ma tu? Sei stato persino suo ospite. Se gli stavi sempre d'intorno!". Il manifesto non uscirà.
La nuova Italia è pronta a subentrare alla vecchia, umiliata e
sconfitta, come Trilussa aveva anni prima previsto: "Se Mussolini cadesse, il giorno dopo la sua caduta le strade sarebbero nere di camicie lasciate cadere la notte. Questo tacito declino di un simbolo che diventa tappezzeria".