L a nascita di una nuova casa editrice è una follia. I grandi editori volgono le opere in formato e-book e un pazzo reazionario crede ancora nella carta stampata? Provo a divinare gli astri: chi ci perde sono proprio i mastodontici gruppi editoriali (con relative catene librarie), i piccoli editori, che presto diventeranno «patrimonio culturale», vivranno da qui alleternità (scommetto perfino sulla risurrezione dei librai). Chiamiamola follia ragionata.
Alle spalle della Ladolfi Editore (tutte le informazioni qui: www.ladolfieditore.it) cè il cervello di Giuliano Ladolfi, una vita nella scuola (di mestiere è preside al Liceo Linguistico, Classico e delle Scienze Umane «Don Bosco» di Borgomanero), ma soprattutto una passione operosa per la critica letteraria (la bibliografia è sterminata, ha collaborato specialmente con gli editori Interlinea, Marsilio e San Paolo, scrive su Avvenire). Chiamiamolo un bravo maestro. Nel 1996 crea insieme al poeta (ed ex allievo) Marco Merlin la rivista Atelier che è a tuttoggi una delle più autorevoli nel campo minato della riflessione letteraria (www.atelierpoesia.it); nel 1999 cura lantologia di poeti nati negli anni Settanta Lopera comune, volume di riferimento per capire il cangiante, virulento panorama della poesia odierna, recentissima (di lì son passati gli scrittori più quotati di oggi come Flavio Santi, Elisa Biagini, Laura Pugno, Daniele Piccini). Limpresa è umilmente ambiziosa: si cercano opere «destinate a fondare un canone nella letteratura italiana, come pure una collana di critica destinata a rompere schemi e pregiudizi».
La casa editrice capitanata da Ladolfi si circonda di un gruppo di lavoro formato da giovanissimi (ci si propone, tra laltro, «una militanza in grado di attivare energie giovanili e di coinvolgerle in un progetto di rinnovamento della poesia, della narrativa e della critica italiana») come Giulio Greco e Guido Mattia Gallerani, di esperti come Matteo Fantuzzi e Roberto Carnero (collabora con Bompiani, Bur e BaldiniCastoldi; scrive come critico letterario su lUnità, Il Sole 24 Ore e Famiglia Cristiana) e di un bandito come me (però mi occupo esclusivamente di narrativa per linfanzia). La collana di narrativa, «Rubino», guidata da Gallerani, pubblica in questi giorni La leggenda del cieco samurai di Ferruccio Parazzoli (pagg. 46, euro 10). Scrittore tra i più presenti e rilevanti in Italia, purosangue nel paddock Mondadori, Parazzoli, cristiano indisciplinato, piace a destra e a manca, ai cattolici integrali (le Edizioni Ares hanno da poco pubblicato con il titolo Il posto delle cornacchie i suoi Nuovi appunti dal cuore della notte) come a Giuseppe Genna, con cui, con la partecipazione di Michele Monina, firmò nel 2003 il libro inconsistente I demoni, per leditore PeQuod. Invece questa favola di ambientazione milanese, ricavata da opere piene e volumetriche come Per queste strade familiari e feroci (risorgerò) (Mondadori, 2004), ma ancor più da MM Rossa (Mondadori, 2003), è piana, docile, perfino pia. La storia del vecchio cieco Samurai, che «ascoltava le conferenze sui cieli dinverno e sui cieli destate, sulle nebulose, sui buchi neri e sulla corsa dellUniverso» al Planetario di Porta Venezia a Milano, che cerca nella città infernale (mai così familiare e accogliente) Melania Maria, «la ragazza filippina che faceva servizio al bar», miracolato dalla Madonna di Lipa che gli dona per tre giorni la vista (i tre giorni che ci simpiega a risorgere), è struggente e stordente. Tra incontri umani troppo umani, il punto più alto si tocca quando Samurai racconta di una vigilia di Natale in cui svelò al figlio prete di un aborto non compiuto ma desiderato, naturale («tuo padre e tua madre non hanno voluto quel tuo fratello e lui non è mai venuto tra noi»). Ne scaturisce la domanda, vorticosa: «Di che grado è stata la nostra colpa? Che valore ha di fronte a una vita la volontà o il rifiuto di accoglierla?». Il resto (che è molto) non ve lo dico.
La favola scorre facile come lacqua, ma gli incroci, profondi, richiedono una seconda lettura: il vecchio Samurai, che rimanda al combattente cieco Zatoichi, protagonista di un fortunato serial giapponese negli anni Sessanta e riportato in auge nel 2003 da Takeshi Kitano, è più che altro un genio nellarte marziale dei sentimenti, uno spadaccino delle emozioni.
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