Federico Croci: "L’archistar del Maxxi? Si attribuisce i meriti degli ingegneri italiani"

Lo studio che ha eseguito i lavori: "L’idea di Hadid era originale, forse Ma alla fine l’abbiamo realizzata noi. E lei ora nemmeno ci nomina"

Federico Croci: "L’archistar del Maxxi? 
Si attribuisce i meriti  degli ingegneri italiani"

Da quando è stato concepito, nel 1998, il Buco Nero dell’Arte Contemporanea - il museo Maxxi di Roma - non smette di inghiottire tutto ciò che gli capita a tiro: soldi pubblici (i costi di realizzazione sono lievitati da 50 a oltre 100 milioni di euro), tempo (la conclusione dei lavori è slittata di quattro anni), futuri incassi (uno studio dello Iuav di Venezia spiega come il museo sarebbe già in profondo rosso per il 2010), documenti contabili (tre mesi fa il Giornale chiese al Maxxi l’elenco dei prezzi pagati per ciascuna delle opere acquisite finora, a suon di 5 milioni di euro complessivi l’anno, finanziati dallo Stato. Risposta, ancora attuale: «Vi faremo sapere») e infine, preso da una specie di cupio dissolvi, il Maxxi ha inghiottito anche la stessa arte contemporanea che dovrebbe rappresentare, inspiegabilmente sostituita con una mostra di De Dominicis scelta per l’inaugurazione di fine maggio (Sgarbi: «Non dovrebbe nemmeno aprire». Francesco Bonami: «Un maxxifallimento. Che c’entra De Dominicis con le arti del XXI secolo?»).

A peggiorare le cose, può darsi che a tutta questa serie di «sparizioni» occorra aggiungere anche quella dei meriti degli ingegneri italiani che hanno reso possibile la costruzione del Maxxi sulla base dell’idea iniziale fornita dall’archistar anglo-irachena Zaha Hadid, pagata, a quanto si mormora nell’ambiente, 17 miliardi di lire. Federico Croci è uno dei soci dello Studio Progettazione Croci che alla fine del 2002 vinse in appalto integrato la progettazione strutturale dell’edificio.

Ingegner Croci, che accade?
«Un’opera come l’edificio del Maxxi è estremamente complessa, ardita, a suo modo splendida. Per costruirla c’è stato bisogno di soluzioni inedite, di una conoscenza sempre maggiore della struttura e dei modi per realizzarla in corso d’opera così come la si voleva. C’è una fase embrionale, l’idea, ma altrettanto importante è la fase esecutiva e costruttiva, che richiede tanta ingegnosità quanto quella precedente. Tra le due, c’è lo stesso abisso che corre tra un bozzetto di Pininfarina e una Ferrari messa su strada».

Fuor di metafora?
«Venti persone su trenta del nostro studio hanno lavorato per sei anni, giorno e notte, per rendere possibile l’edificio del Maxxi, che è pura struttura “faccia-vista”: l’architettura è la struttura nuda e cruda. Proprio per questo non può permettersi, a esempio, quelle normalissime fessurazioni degli edifici in cui l’architettura maschera la struttura. Abbiamo ideato tecniche di assoluta avanguardia per arrivare al Maxxi così come lo vediamo».

Quali?
«La struttura del museo è fatta a giunti, come i grandi ponti, ma di un tipo particolarissimo: smorzatori oleodinamici che assorbono le lente deformazioni dovute al caldo e al freddo e che possono conferire rigidità all’intero edificio in caso di terremoto. Le travi lamellari di acciaio lungo i corridoi non solo contengono sofisticati meccanismi per la regolazione della luce, ma sono anche fatte in modo da garantire, in caso di incendio, il tempo necessario all’evacuazione. Durante la costruzione del Maxxi, poi, ogni eventuale spostamento millimetrico delle fondamenta era monitorato da un sistema computerizzato di martinetti e sarebbe stato compensato in tempo reale, evitando che si aprissero microfessure nel cemento armato».

Ma il ruolo di Zaha Hadid?
«Dopo che ebbe fornito il progetto iniziale, per il quale l’aspetto costruttivo era di secondaria importanza, la fecero rimanere come consulente. Io, però, non l’ho mai vista per tutti questi anni. Uscivano i suoi architetti. Credo che lei si limitasse a svolgere un ruolo formale nei rapporti con la committenza. È come se qualcuno fosse venuto da noi a dirci di aver avuto l’idea per un ponte dalla Terra alla Luna. Idea originale, forse, ma alla fine siamo noi ad averlo realizzato».

L’Hadid è un’archistar. Avrà avuto altro da fare.
«Nel campo della pubblicità per se stessa, sicuramente. Peccato che anche qui non abbia riconosciuto per nulla il lavoro svolto dalle imprese italiane, che pure hanno apposto le loro firme di responsabilità su ogni tavola del progetto. In alcune interviste che le sono state fatte, se ne è addirittura presa i meriti».

Per tale ragione avete fatto partire alcune lettere dal vostro studio legale?
«Sì, destinataria Zaha Hadid e, per conoscenza, la Fondazione Maxxi, a cui certo non vogliamo rovinare la festa per l’inaugurazione. Ma non si capisce, per esempio, perché il merito del progetto strutturale esecutivo per l’edificio del Maxxi debba andare, secondo quanto proclamato dalla Hadid in interviste apparse su Detail e The Plan, a uno dei suoi consulenti iniziali e ante-gara, Anthony Hunt, quando invece le idee di quest’ultimo sono state radicalmente modificate e superate dai nostri ingegneri. Abbiamo anche dovuto insistere affinché sul sito web del Maxxi i nostri crediti apparissero correttamente».

Che cosa chiedete, alla fine?
«Ci sono aziende italiane che per realizzare il Maxxi a livelli di assoluta eccellenza hanno rischiato il fallimento.

Noi stessi abbiamo fatto fatica a contenere le perdite economiche. Siamo stati tutti mortificati dall’attuale culto per le archistar e, qualche volta, dalle archistar stesse. Chiediamo semplicemente che i meriti vengano riconosciuti».

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