
C'è qualcosa di luminoso in Milena Vukotic, una delle massime attrici italiane di teatro e cinema, novant'anni appena compiuti in scena, al teatro Parenti di Milano, dove ha interpretato Lezione d'amore, testo di Federica Di Rosa e Andrée Ruth Shammah, regia di quest'ultima, con Federico De Giacomo e Andrea Soffiantini.
Saranno gli occhi, sarà la passione assoluta per quello che fa. L'ho osservata a lungo, l'ho vista recitare, incedere con l'equilibrio costante di un alpinista, ridere, tossire spaventosamente, febbricitante dopo uno spettacolo, indossare una seducente sciarpa color salmone, e spandere nell'aria un profumo che ho immaginato di alta gamma. Quando l'ho incontrata la pensavo stanca dei suoi recenti tour de force teatrali. Invece mi dice che la stanchezza non esiste.
Come non esiste?
«Mannò, basta non pensarci. E poi parlarne non serve a niente».
Ho contato i suoi film: dopo i cento ho smesso.
«La contabilità la tiene mio marito. Del resto ho cominciato negli anni Sessanta. E ho avuto la fortuna di lavorare con grandi registi».
A cominciare da Federico Fellini.
«Un evento che ha capovolto la mia vita, dato che venivo dalla danza. Sono nata a Roma, ma lavoravo con base a Parigi, all'Opera e poi nella compagnia del marchese de Cuevas. Avevamo sostituito i balletti russi di Djagilev, declinanti. Con i migliori coreografi, le scenografie di Dalì. Allora la danza era molto viva a nord, Parigi Londra a New York; in Italia meno, a parte La Scala e l'Opera di Roma. Un giorno ho visto per caso La strada e siccome già frequentavo dei corsi di teatro, durante i cinque anni di conservatorio, dove studiavo anche pianoforte, io figlia di un drammaturgo e di una musicista ho pensato di tentare quel percorso».
Ma scusi, a neanche vent'anni riusciva a fare tutto?
«La disciplina assoluta non mi impediva di vivere. Certo non era una vita normale, tradizionale. Ma c'era il piacere di una continua scoperta».
Fellini, dicevamo
«Vivevo con mia madre che nel frattempo si era trasferita a Roma. Non conoscevo quasi nessuno e non ho fatto nessuna scuola in Italia. Avevo una lettera di presentazione per Fellini. Lui mi ha ricevuto, ma io per l'emozione non l'ho neanche tirata fuori. Il rapporto è stato molto facile. Con lui ho fatto Giulietta degli spiriti, un episodio in un film che si chiamava Boccaccio 70 e un episodio di Tre passi nel delirio, con Terence Stamp, da un racconto di Oscar Wilde. Poi, per la televisione, Giamburrasca della Wertmüller, con tanti attori anche di teatro, e così le cose si sono sviluppate».
Disciplina, diceva. La sua era una generazione che ne aveva più di oggi? Magari per via del clima di guerra?
«Non saprei. Durante la guerra con la mia famiglia ero a Londra. C'erano i bombardamenti, avevo un fratello malato in ospedale. La guerra l'abbiamo vissuta, ma perlomeno non c'erano i tedeschi».
Quel disagio è stato formativo?
«Tutto il vissuto è formativo, siamo in continua evoluzione, o devoluzione».
Leggeva?
«Essendo anche figlia di un letterato, sì. Ma la mia formazione è avvenuta senza imposizioni».
In francese?
«In francese e in inglese. Ho la fortuna di conoscere anche il tedesco e il serbo. Parlando il serbo è più facile captare qualcosa dei bulgari e dei polacchi».
Fra i registi c'è anche il giapponese Oshima, con cui ha fatto Max mon amour, storia di una donna che si innamora di una scimmia. Era ispirato a Buñuel?
«Più che altro la produzione era la stessa. Guardi, questo è l'orologio che Oshima mi regalò, lo porto sempre al collo».
Chi c'era dentro nella scimmia?
«Un'attrice australiana, una specialista. È un lavoro difficile, ci sono attori apposta».
Ha avuto un ruolo ne Il fascino discreto della borghesia. Com'era Buñuel?
«Unico nel suo genere. Qui ha detto: Grazie a Dio sono ateo. Da giovane voleva essere un combattente della Chiesa, ma nei film mostra il suo bisogno di farsi vedere come un rivoluzionario».
I registi di oggi?
«Hanno come tutti la volontà di rompere con certe strutture e certe tradizioni. Ma certo la propria formazione dev'essere aperta anche al passato».
I David di Donatello? Non sembrano un po' autoreferenziali?
«Non saprei. In tv non finivano più, ne davano uno per qualsiasi cosa»
La domanda sulla Pina, moglie di Fantozzi, non gliela faccio neanche
«A casa di Paolo Villaggio, la domestica mi apriva la porta e annunciava alla moglie Maura: Signora, è arrivata la moglie di suo marito! Abitavamo vicini. Poi è andato a vivere altrove e mi diceva che non era contento».
Molti grandi attori hanno avuto un finale di vita triste, anche Gassman, Tognazzi
«Tognazzi l'avevo incontrato all'albergo Dante, a Firenze. Stava recitando in teatro, io ero con Paolo Poli. Mi disse: Beata te che fai ancora del cinema. Era infelice».
Monicelli?
«Per Amici miei in realtà ero stata scelta da Germi, che non ho fatto in tempo a conoscere. In Monicelli quello che emerge di più non è tanto il ridere delle cose quanto il ridere di se stessi. Lui ha pagato caro il fatto di non cedere alle mode e ai qualunquismi».
Lei ha mai avuto momenti bui?
«Ma certo! Però cerco di rimuoverli. E poi non ho mai avuto una carriera all'insegna della regolarità. È mia sorella che ha stabilito che dovevo studiare danza».
In questo spettacolo la protagonista è un'anziana pianista che ha un rapporto ambiguo con un adolescente, poi si ammala in modo grave.
«È un personaggio multicolore, una donna che ha molto sofferto ma è piena di risorse, fra cui quella di volere a tutti i costi vivere fino in fondo. Allo stesso tempo ha paura del dolore fisico».
Lei che cosa pensa dell'eutanasia?
«Non ho pregiudizi di carattere religioso, ma sono molto confusa, non so dove stia la parte giusta, se ce n'è una».
Se dovesse definire se stessa in poche parole?
«Il conosci te stesso fa parte dei misteri».
Figli?
«Purtroppo no. Non è capitato e mi spiace. Ma ho tanti figli adottivi: i miei personaggi. E poi persone che mi sono molto care. Mia madre alla fine era come se fosse mia figlia».
Che cosa pensa resterà di lei?
«I film rimangono; il teatro invece è fatto sull'acqua».
Che cosa non vorrebbe aver mai fatto?
«Anche dalle cose non riuscite si impara. Rina Morelli diceva: Bisogna andare a teatro per capire quello che non bisogna fare».
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