Poiché sono nato nella città natale di Cesare Lombroso, padre della fisiognomica, ho preso da tempo l’insana abitudine di osservare la postura, la mimica, l’oratoria, i vezzi, i tic del presidente della Camera e sono giunto alla conclusione che la sua gestualità corrisponda in pieno all’anagramma di Gianfranco Fini, che è Cigni Fanfaroni. Del cigno, la terza carica dello Stato ha l’incedere maestoso. È un vero peccato che sia nato a Bologna anziché a Busseto. Pur privo della barba bianca di Giuseppe Verdi, vuole mostrarsi ieratico. Gli si attaglia in pieno ciò che Luigi Bertet (presidente dell’Automobil club di Milano) disse un giorno all’amico Carlo Caracciolo (editore dell’ Espresso e della Repubblica ) a proposito di Eugenio Scalfari, un altro anseriforme barbuto che nella vita ha fatto di tutto per svettare e sembrare autorevole: «Emana sicurezza. Cammina eretto. Porta in giro la testa come il Santissimo». Si vede a occhio nudo che Fini studia da Padreterno in terra, cioè da presidente della Repubblica. Tanti auguri, Adonai. Però qualcuno dovrebbe assumersiil pietoso compito di avvisarlo che per quella carica s’è già prenotato, a sinistra, uno dei suoi predecessori sullo scranno più alto di Montecitorio: Luciano Violante. Per non parlare di tutti gli altri pretendenti al trono. Del fanfarone, Fini rivela la perfetta conformità con la definizione che ne dà lo Zingarelli: «Chi ingrandisce a dismisura la portata delle sue vere o più spesso presunte qualità». Non è colpa di nessuno se, soprattutto al Nord, fanfarone coincide per assonanza con fannullone. Da questo punto di vista va detto che nel profilo biografico pubblicato sul sito del presidente della Camera (eh sì, in Internet lui s’è insediato, chissà perché, in una magione informatica tutta sua, diversa da quella degli onorevoli deputati) non si rinviene traccia alcuna, a parte «giornalista professionista», di un qualche lavoro svolto da Fini nel corso della sua vita, a meno che non si voglia considerare la politica un mestiere. Sul tono delle orazioni pubbliche dell’inquilino di Montecitorio, bisognoso di accreditarsi come credibile soprattutto dopo lo scandalo di Montecarlo, si potrebbe scrivere un trattato. Tribunizio, declamatorio, enfatico, sostanzialmente tronfio - un gargarismo, se confrontato con la virile assertività del suo padrino Giorgio Almirante - quando conciona davanti alle platee amiche, siano esse radunate a Mirabello piuttosto che a Bastia Umbra; sommesso, monocorde e sussiegoso quando legge discorsi ufficiali e indirizzi di saluto nella Sala della Lupa piuttosto che nella Sala dei Busti. Il meglio di sé lo offre quando vede assiso al centro della prima fila, sulla poltrona laccata d’oro e foderata di velluto rosso, il suo interlocutore prediletto: Giorgio Napolitano. In quel caso,l’alone di misticismo istituzionale che Fini promana è rafforzato da una luce fioca sul leggio; in teoria dovrebbe solo rischiare i profondissimi concetti scolpiti per lui dai ghostwriter di Palazzo, in realtà estende il suo effetto flou alle rughe dello statista in erba. Tutto in lui è studiato per trasmettere solidità. Quella che non ha.
POSTURA I mutamenti di postura sono molto più espressivi dei discorsi grondanti retorica d’accatto. È l’unico leader capace di ruotare il busto, mentre parla, ora di 45 gradi a destra ora di 45 gradi a sinistra, disegnando ogni due minuti un angolo retto che vorrebbe apparire ecumenico nei confronti dell’uditorio e invece sembra la sintesi perfetta di una carriera politica che lo ha visto tenere il piede in due staffe e cambiare opinione con preoccupante ciclicità.
DITA I movimenti delle mani di Fini sono la prosecuzione con altri mezzi del Tg1 per non udenti. Indici della destra e della sinistra che disegnano in sincronia bolle nell’aere. Indici che arrivano a congiungersi di punta, come se l’Adamo di Futuro e libertà dovesse darsi una scossa o addirittura infondersi da solo la vita, alla maniera del Dio michelangiolesco nella Cappella Sistina. Indici che si levano ammonitori verso il cielo secondo l’usanza degli ayatollah o che vengono minacciosamente branditi a mo’ di manganelli (ne sa qualcosa Silvio Berlusconi, insolentito platealmente in diretta tv durante la direzione del Pdl al grido «Che fai? Mi cacci?»). Palmi esibiti al pubblico. Palmi rivolti verso il basso. Palmi che combaciano nello stile dei monaci zen, più che di Bernadette in preghiera davanti alla grotta di Massabielle. Pugni che si serrano. Pugni che si aprono. Una mano in tasca, per dissimulare disinvoltura, e una che lampeggia a intermittenza, manco stesse saggiando i testicoli di un toro immaginario.
SEGNALI L’etologo Desmond Morris li chiama «segnali di accentuazione ». Il presidente della Camera, che dispone di una laurea in psicologia, saprà di che parlo. Si tratta di tutte quelle azioni che enfatizzano il ritmo delle parole. Per mascherare la contraddittorietà dei suoi pensieri, cangianti a seconda delle stagioni e delle convenienze, Fini ne usa un armamentario illimitato. C’è la «presa di potenza» (tutti e cinque i polpastrelli di una mano rivolti a cucchiaio verso di sé, come se dovesse avvitarsi una lampadina sul petto), tanto cara a Charles De Gaulle, si parva licet. C’è la «presa di precisione a vuoto» (pollice e indice che si congiungono ad anello, come nell’ok degli americani) per sottolineare l’esattezza dei concetti. Ci sono i palmi in su, con cui implora il consenso dell’uditorio. Ci sono i palmi in dentro, con cui abbraccia i propri concetti, quasi stringesse a sé un invisibile compagno. Ci sono i pugni chiusi per evidenziare il senso di incrollabile determinazione. C’è,insomma, tanta scena a coprire il vuoto d’idee.
LOCUZIONI Quando i «segnali di accentuazione» non bastano, Fini fa ricorso a vezzi linguistici assai rivelatori, come quel «per davvero» che Vittorio Sgarbi ha già criticato da par suo sul Giornale , ripetuto per ben quattro volte nei primi 40 secondi del discorso di Bastia Umbra e poi replicato in modo asfissiante. Anche qui viene in soccorso lo Zingarelli: « Per davvero , sul serio: non minaccio per scherzo, ma per davvero ». Si avverte sotto traccia che l’uomo nutre un disperato desiderio d’essere creduto. Preso sul serio, appunto. La stucchevole locuzione avverbiale fa il paio con insistiti «e allora, amici», espressione che vorrebbe avere la definitività dei classici e invece non possiede nemmeno l’attualità dei contemporanei. Ambisce a mettere un punto fermo nelle umane vicende: tipico del delirio d’onnipotenza.
ABITUDINI Purtroppo le pretese di autorevolezza sono vanificate da abitudini imperdonabili in un uomo di Stato. Anche volendo tralasciare il deprecabile vizio di masticare in pubblico la gomma americana, persino negli appuntamenti istituzionali e durante le commemorazioni dei defunti (è accaduto di recente a Palermo, alla cerimonia in onore del magistrato Paolo Borsellino assassinato dalla mafia),Fini appare afflitto dall’horror vacui delle asole. Non avendo mai potuto, per ragioni anagrafiche, riempirle con la cimice, il distintivo del Partito nazionale fascista d’ordinanza durante il Ventennio, oggi rimedia appuntandosi sui revers delle giacche spillette d’ogni tipo. La più gettonata è quella delle Repubbliche marinare. Per un appassionato di immersioni subacquee potrebbe anche starci,ma stona con l’incarico ricoperto, che dovrebbe imporgli, nell’Italia dei campanili, equidistanza formale da Venezia, Genova, Pisa e Amalfi. Però mi è capitato anche di vederlo ostentare una specie di gladio che avrebbe fatto la felicità di suo padre Argenio, volontario nella X Mas. Un’illusione ottica, voglio sperare: magari si trattava di un bastone di Asclepio donatogli da qualche Ordine dei medici. Ma la bizzarria rimane.
ACCESSORI Denota infantilismo anche la scelta dei vistosissimi gemelli con cui il presidente della Camera usa adornare le asole dei polsini delle camicie, rigorosamente doppi come si confà a uno statista. Di solito raffigurano stemmi araldici e greche generalizie. La butto lì: se avesse avuto dei figli maschi, secondo me giocherebbe con loro a soldatini. Affinché i pacchiani accessori d’abbigliamento possano risaltare in tutto il loro splendore, nelle occasioni ufficiali dov’è soltanto ospite Fini suole tenere le braccia conserte, «in cortesia» come si dice dalle mie parti. Sarei pronto a giurare che darebbe qualsiasi cosa per potersi fregiare dei gemelli con il Seal, il simbolo del presidente degli Stati Uniti d’America, quello con l’aquila che stringe nell’artiglio sinistro 13 frecce e nell’artiglio destro una fronda d’olivo con 13 rami e 13 olive, e che ha 13 stelle intorno alla testa, e 13 strisce bianche e rosse sullo scudo, e 13 lettere nel motto «E pluribus unum», ossessiva ripetizione del numero associato alla ribellione di Lucifero. Per il momento ho notato che talvolta si accontenta di una pietra preziosa blu recante un punto interrogativo d’oro. Posso aver visto male: magari i gemelli rotondi s’erano girati nell’asola e si trattava solo di un rampino da macellaio. AURA Del cigno, fanfarone o no che sia, Fini ha soprattutto l’altezzosità. Se scende dall’autoblù per recarsi nella sede di Farefuturo e incoccia in una troupe del telegiornale, il Lord Brummel di Montecitorio dà subito volume al nodo delle sue cravattone pastellose, afferra i polsini della camicia e li sistema in modo tale da farli sporgere dalle maniche della giacca quel tanto che basta per credersi elegante, infine impartisce un lieve fremito di degnazione alle labbra sigillandole «a culo di gallina» (cfr. Alberto Sordi, Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue ). Una deviazione dei radi capelli - da destra verso sinistra, ça va sans dire, per chi guarda - ha il compito di marcare la differenza anche tricologica dal Cavaliere. Fronte del riporto che un tempo fu Fronte della gioventù. Infine gli occhiali senza montatura: dovrebbero conferire a Fini un’aura di intelligenza,rispettabilità, prestigio. Dovrebbero. Solo una volta, davanti alle telecamere, il leader che si crede carismatico non gesticolò. Fu quando gli toccò registrare un videomessaggio sul brutto affare della casa di Montecarlo finita nella disponibilità del «cognato».
Nove minuti con le mani adese alla scrivania, il busto rattrappito, l’occhio fisso sul gobbo da cui nel timore di tradirsi leggeva la sua autodifesa, virgole comprese: «Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera». Infatti. Ma sarebbe troppo pretendere dai Cigni Fanfaroni che rispettino le promesse, me ne rendo conto. stefano.lorenzetto@ilgiornale.it- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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