
La Beat Generation è forse più citata che letta. Sì, certo, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, Ken Kesey: tutti autori ben noti e quasi tutti ben pubblicati, perfino in Italia. La controcultura, i primi hippies, il Greenwich Village, le droghe psichedeliche... Tutto bene. Tutto vero. Tutto giusto. Però parziale. Chi vuole una versione «totale» del fenomeno, non solo letterario, ora dispone di uno strumento formidabile, I libri del Beat (Luni editrice) di Maurizio Scudiero. La passione nasce da una visita alla libreria City Lights, a San Francisco, nel 1981. Proprietario: Lawrence Ferlinghetti. Si parla prima di vini della Franciacorta (Ferlinghetti è di origine bresciana, Scudiero è di Rovereto). Poi di vecchi libri della Beat Generation. Ferlinghetti presenta poi Scudiero a Ginsberg e altri «reduci» di quella temperie culturale. A questo punto, Scudiero è già collezionista attentissimo della Beat Generation.
Nel sontuoso libro illustrato, trovate dunque la storia della Beat Generation attraverso le pubblicazioni più importanti e talvolta più rare. Ma prima il nome: cosa significa infatti beat generation? Battuta, sconfitta, stanca sul modello della comunità afro-americana dell'epoca? Certamente c'è questo significato. Il beat, il battito, però evoca anche la musica jazz, la libertà e la fisicità dell'improvvisazione. E anche questo fa parte della Beat generetion. Ma poi c'è un significato meno noto. Jack Kerouac, intervistato da un altro scrittore, Clellon Holmes, autore del primo romanzo Beat (Go), ci tenne a risolvere un equivoco: «Non siamo romantici sbandati, non siamo bohèmiens, se ne ricordi. Beat vuol dire beatitudine, non battuto, sconfitto».
Il cattolico Kerouac sogna la rigenerazione attraverso la libertà dello spirito. Avere o non avere fede, e in che cosa eventualmente credere, è uno dei rovelli principali degli scrittori Beat. C'erano le religioni tradizionali. C'erano lo Zen e il Buddhismo. C'erano i santoni e i guru indiani. Insomma, ce n'era per tutti i gusti. Ma si trattava pur sempre di ricerca religiosa. I Beat non esaltavano la mancanza di valori personali e sociali: la raccontavano come un problema che richiedeva una soluzione.
E poi c'è Beat e Beat. Prendiamo William Burroughs, probabilmente il più grande scrittore del lotto. Era un gentiluomo, rampollo di una ricca famiglia, studi a Harvard, perfezionamento a Vienna, radicalmente americano e quindi individualista, amante della frontiera anarchica e senza legge, geloso delle sue armi, con le quali uccise la moglie per errore. Non c'è nulla di religioso, direte voi. Ma osserviamo l'opera di Burroughs da un altro punto di vista. Burroughs aggredisce la parola, che considera alla stregua di un virus. Ma contestare la parola significa, in Occidente, contestare letteralmente tutto: perché noi siamo la civiltà della parola e della Parola. La parola è consunta, umiliata dall'uso quotidiano. E Burroughs si pone come obiettivo proprio il rivitalizzarla, attraverso lo stile, e in particolare il metodo del cut up (prendi una pagina, ritagli le parole, le metti in un sacchetto, agiti, rovesci sul tavolo, dalla nuova combinazione di parole uscirà un significato nuovo, diverso, originale). Tra le edizioni presentate nel libro, segnaliamo i racconti di Exterminator! Quello omonimo consta delle più terrificanti otto pagine sull'Olocausto, mai nominato espressamente, roba da psicopatici. Si parla di un tizio che gasa i topi nelle case. Al termine della lettura non si sa cosa fare: dare una testata al muro o correre per strada a urlare frasi sconnesse.
Il manifesto Beat probabilmente è On the Road di Jack Kerouac, prima edizione Viking Press, 1957. Fu scritto nel 1951, in tre settimane, sulla base degli appunti presi da Jack nei suoi pellegrinaggi automobilistici nel cuore degli Stati Uniti. Fu un successo. Kerouac pensò di trarne un film con Marlon Brando ma non se ne fece nulla. La copertina della prima edizione è un capolavoro nel capolavoro: nera, con la scritta bianca e al centro un dipinto astratto di piccole dimensioni. Le edizioni successive banalizzavano il romanzo, tra citazioni cinematografiche, occhiate alla pop art e perfino divagazioni quasi fumettistiche.
Ci si imbatte, tra le pagine di I libri del Beat, in perle oscure, come il piccolo ma profondo libro di Kerouac su Rimbaud. Il valore è accresciuto dalla scelta dell'editore (Ferlinghetti, City Light Books) di un formato pieghevole.
Nel 1958, Corso pubblicò, con City Lights Books, Bomb: un poema visivo stampato come un calligramma, un disegno che utilizza la disposizione delle lettere per creare un disegno, il fungo di una bomba atomica. Anche questo testo è stato spesso frainteso, più del significato politico, c'entra la denuncia di un mondo meccanizzato e dunque disumano.
Per Howl, il poema di Allen Ginsberg contro le debolezze e le ipocrisie dell'America, Ferlinghetti con la sua City Lights Books, utilizza una grafica semplicissima, ma d'impatto, probabilmente memore di qualche copertina di disco o manifesto country d'annata. Siamo nel 1956 e Howl è già considerata la massima espressione della poesia Beat. Celebre il suo incipit: «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate, isteriche, nude, trascinandosi per le strade dei negri all'alba in cerca di una dose rabbiosa».
Abbiamo visto gli albori della Beat generation. L'episodio finale è considerata la serata dell'International Poetry Incarnation che si tenne presso la Royal Albert Hall a Londra nel giugno del 1965. Ginsberg, Ferlinghetti, Corso, Burroughs e molti altri lessero le proprie opere davanti a un pubblico in adorazione di settemila persone.
Troppo successo. Era tempo di cambiare. E cambiarono. Ginsberg divenne poeta ufficiale della controcultura (che paradosso) con riconoscimenti ovunque nel mondo. Kerouac non aveva trovato la beatitudine e, sempre meno ispirato, annegò il dolore in un mare di alcol. Burroughs entrò nella fase più difficile e avventurosa della sua carriera prima di ritirarsi nella solitudine di Lawrence in Kansas, insieme ai suoi molti gatti e ai suoi fucili.
Difficile dire cosa sia rimasto della Beat
generation. Ma se dovessimo dire una sola cosa, diremmo il coraggio di osare, sempre. Una cosa inconcepibile in un mondo dove la letteratura è diventata un'industria editoriale che sforna romanzetti uno uguale all'altro.
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