«Fermate i baby non le gare del motomondiale»

Giacomo Agostini, quindici titoli mondiali tra gli anni '60 e '70 e una carriera da campionissimo, conosceva Shoya Tomizawa?
«L'ho incontrato qualche tempo fa, ma non ci siamo parlati. Tutti mi hanno detto che era un ragazzo felice e con le due ruote nel cuore».
Due morti in una settimana, la moto è uno sport troppo pericoloso?
«Ogni pilota sa che questo è un mestiere pericoloso. Negli ultimi tempi si è fatto molto in tema di sicurezza ma nel caso di Tomizawa nessun accorgimento tecnico avrebbe potuto salvargli la vita, è stata una fatalità».
Cosa pensa della polemica legata alla mancata esposizione della bandiera rossa dopo l'incidente?
«Se il medico non riesce a soccorrere il pilota caduto a causa delle moto che continuano a girare, e non è stato il caso di domenica come affermato dai medici stessi, è giusto fermare la corsa. Negli altri casi la bandiera rossa non serve, non puoi fermarti ogni volta che cade un pilota. Finché non lo soccorri non puoi sapere l'esatta entità del danno: dopo quel botto De Angelis e Redding si sono rialzati, per esempio».
La direzione gara quindi ha agito bene.
«E' stato un dramma ma la vita va avanti. Non è questione di essere cinici, ma realisti. Purtroppo ogni tanto può succedere: si ammazzano fuori dagli stadi, figuriamoci in uno sport di velocità».
Bisogna cercare di andare avanti, insomma.
«Quando morirono Pasolini e Saarinen (nel 1973 a Monza, ndr) ho pianto due giorni ma poi mi sono detto: "E' successo a loro, non succederà a me", per tirarmi su. E questo vale per ogni cosa, quando cade un aereo non si chiudono gli aeroporti e chi deve partire, parte».
Forse si poteva almeno decidere di non fare partire la MotoGp.
«Ma per quale motivo? Non facciamo gli ipocriti, tutti i piloti sanno che possono morire. E così capita anche in altri mestieri. Semmai, è stato giusto tenere un tono basso durante la cerimonia del podio: bandiere a mezz'asta e niente champagne».
Domenica in Moto2 erano in trentotto al via: troppi?
«Sono tanti, il numero ideale sarebbe trenta. Ma il problema dell'affollamento dura i primi due giri poi il gruppo si allunga. Nell'incidente di Tomizawa non c'entra il numero di iscritti, era una lotta a tre».
E' stata forse colpa dello strato di erba sintetica?
«La pista in qualche modo si deve pur delimitare. I cordoli no, perché rompono la schiena, i muri no perché ammazzano, nella sabbia cadi subito, è stata quindi messa l'erba sintetica. Non bisogna confondere la pista con il fuori pista. Se finisci sul sintetico basta che raddrizzi e ti fai superare. Tomizawa poverino non ci ha pensato».
Inutile quindi cercare un colpevole.
«Esatto. Adesso tutti cercano un colpevole: ci fosse, sarebbe legittimo. Ma quella di domenica è stata una fatalità. Tragica, ma pur sempre una fatalità».
Anche perché in quanto a sicurezza il mondo del motociclismo ha fatto passi da gigante negli ultimi anni.
«Hanno fatto tantissimo, aiutando anche i piloti di strada per esempio con l'airbag studiato dalla Dainese. In MotoGp erano sette anni che non moriva nessuno in pista. Ai miei tempi…»
Ai suoi tempi com'era?
«C'erano gare come il Tourist Trophy che ha fatto duecentodieci vittime. Per questo mi sono battuto per cancellarlo dal motomondiale, non volevo vedere morire tanti amici per una caduta. Oggi tra una morte e l'altra passano anni, ai miei tempi capitava quasi una volta al mese».
Solo una settimana prima dell'incidente di Tomizawa era morto in analoghe circostanze un tredicenne: oggi si inizia a gareggiare troppo presto?
«Non bisogna fare correre i ragazzi a 12-13 anni, lo dico da sempre. Si può iniziare sulle minimoto e approdare a 16 anni sulle 125 per poi affrontare cilindrate più grosse qualche anno dopo. Io stesso ho fatto così e mi pare di avere avuto il tempo per vincere tanto».
In Italia non si può guidare una 125 prima dei 16 anni, per questo tanti ragazzini vanno all'estero per aggirare la norma...


«Difatti, fermo restando che la morte di Lenz non c'entra con la sua giovane età, la federazione internazionale del motociclismo dovrebbe mettere un limite. Oggi c'è la tendenza ad anticipare i tempi in tutto, se si sapesse aspettare il momento giusto sarebbe meglio».

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