Ferrando epurato, Rifondazione nel caos

Cossiga: «Caro Fausto, hai ceduto su Pacs, Irak e Tav. Ora sulle liste ti pieghi al diktat di Prodi. Ripensaci». La replica: «Falso, difendo solo il principio della non violenza»

da Roma

Il dolore, in politica, è un sentimento anomalo. Anzi, in fondo senza corso legale, perché si intende che qualsiasi scelta, piaccia o non piaccia, mieterà vittime. La confusione invece no: in politica, è dinamo vitale e merce di scambio. Ieri, sul caso Ferrando, ha raggiunto vette impensabili, tanto da rendere pregnante la frase scelta da Bertinotti a fine giornata: «La confusione sotto il cielo è già molto grande e la situazione - tuttavia - non è affatto eccellente».
L’ultimo strappo: il capovolgimento del celebre motto di Mao-Tze Dong proprio mentre si consumava l’esclusione ufficiale di Marco Ferrando dalle liste di Prc (segreteria unanime e 155 membri favorevoli su 259 del Comitato politico). Scontati strascichi: la sostituzione con Lidia Menapace; la minaccia di Ferrando di promuovere un referendum per la ri-candidatura; la resistenza ideologica dello stesso nel ribadire gli stessi concetti allo spasimo; la battaglia del suo «vice» Grisolia che rivelava di bertinottiani dissenzienti (Mantovani, Crippa, Nicolosi, Cremaschi - alcuni dei quali però non bertinottiani); la sconfessione dell’altro trotzkista già ferrandiano, Francesco Ricci, contrario a qualsiasi ricorso di Ferrando. Da ultimo, tanto per non risparmiarsi nulla: l’intervento pro-Ferrando del presidente Cossiga.
Intanto Gigi Malabarba, candidato di minoranza fieramente schierato per i diritti di Ferrando, nonché d’accordo con Bertinotti sulla «campagna centrista in atto contro di noi», ne approfittava per lanciare con l’avallo di Bertinotti un’associazione intitolata a Livio Maitan, scomparso e rimpianto leader dei trotzkisti italiani (Ferrando compreso). Finiva così che lo stesso Malabarba difensore di Ferrando spiegasse candidamente che quella di Maitan «è un’altra storia rispetto al purismo ideologico sempre uguale a se stesso di Ferrando, purismo che è poi una contraddizione in termini per il trotzkismo».
Morale: un minimo d’ordine in tanta confusa vitalità non sarebbe dispiaciuto neppure al compagno Mao. Bertinotti ci ha provato, mettendo in fila i punti di «una scelta dolorosa, l’esclusione di Marco, nei confronti del quale manifesto pubblicamente rispetto personale e simpatia». Punto primo: «il suo comportamento in campagna elettorale è risultato incompatibile con la rappresentazione e la rappresentanza politica del partito». Punto secondo: «Ferrando non è incompatibile con il partito stesso, rispetto al quale ha il diritto di manifestare il suo dissenso». Fatto sta, punto terzo, che «le sue posizioni hanno portato a dei fraintendimenti molto pesanti e hanno costretto il partito, anziché a dispiegare la sua linea politica, a dover marcare le differenze con Ferrando. Questa condizione è risultata per noi impraticabile, impossibile, soprattutto in una campagna elettorale in cui sono in molti, lo dico senza allusioni a complotti, a prendere di mira il partito...».
Duro realismo politico in una dura competizione elettorale, resa ancora più difficile dal guado che Rifondazione si accinge a fare verso l’approdo governativo. In tanto smarrimento, in tanto scambio delle parti, emergeva persino con divertimento la difesa (forse) ironica e stringente di Cossiga: «Caro Bertinotti, molto mi ha meravigliato che tu, uomo forte e coerente, ti sia piegato al diktat di Prodi... Non ti comprendo, hai ceduto sui Pacs, hai ceduto sul ritiro immediato dall’Iraq, hai ceduto sulla Tav: vuoi cedere ora anche sulla candidatura di un tuo militante? Ripensaci...». Bertinotti rispondeva sulle stesse corde: «Caro presidente, c’è qualche equivoco da chiarire... Prima di tutto: Prc non ha ceduto sui Pacs, non ha ceduto sul ritiro dall’Irak, non ha ceduto sulla Tav...

Noi riteniamo che la scelta della non violenza sia una caratteristica molto importante e un aspetto significativo della nostra identità: il problema della candidatura di Ferrando è tutto qui». E il segretario non tralasciava neppure di invitare il Presidente, in coerenza con l’afflato della lettera, «a votare per il nostro partito...». Confusione più, confusione meno.

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