Difficile trovare un campo della vita sociale più litigioso, colmo di invidie e pullulante infamie di quello culturale. Non a caso le persone più cattive sono quelle più intelligenti.
E tra gli intellettuali di casa nostra uno che eccelle in perfidia, nella sua assoluta placidità caratteriale, è Giulio Ferroni, critico letterario temutissimo, vecchio barone romano, dominus del Dipartimento di Italianistica della Sapienza, da vent’anni velenosa firma di punta delle pagine culturali dell’Unità, saggista prolifico che non disdegna, quando serve, di mettersi sul «banco dei cattivi». Uno che a suo tempo fu trascinato in tribunale dal collega Alberto Asor Rosa per beghe accademiche; uno che con una stilettata fece infuriare persino l’imperturbabile delle patrie lettere, Alessandro Baricco; uno che da anni teorizza drasticamente la «condizione postuma» della letteratura: gli scrittori contemporanei non li ammonisce con «Ricordatevi che dovete morire», li liquida con un «Guardate che siete già morti».
Dotato di un armamentario critico-teorico invidiabile per qualità e quantità di letture, forte di una lunga e professionalmente proficua frequentazione di salotti, giornali e case editrici (e va detto anche con qualche conto da regolare alle spalle), Giulio Ferroni nel suo nuovo pamphlet Scritture a perdere (Laterza) assesta una serie impressionante di cazzotti alla società letteraria italiana. Con una ulteriore curiosità: cioè il fatto che il professore, un intellettuale pesantemente left-oriented, riserva i colpi più pesanti ai guru e ai santuari dell’intellighenzia italiana. Che, come è noto, o è di sinistra o non è. Per noi right-oriented, una bella goduria.
Ferroni (che pure non si fa mancare presentazioni e partecipazioni in merito) se la prende con i festival letterari che imperversano nel Paese e con i troppi libri che vengono pubblicati - siamo sicuri, si chiede, che più libri significhi davvero più liberi? - abbattendo il peggiore dei luoghi comuni del buonismo culturalmente corretto: «È sempre più necessaria un’ecologia del libro e della letteratura, capace di operare distinzioni nell’immenso accumulo del materiale librario prodotto, di cui i saloni e i molteplici festival del libro pretendono di offrire trionfali esposizioni... Non è il libro in sé, non è qualunque libro a rappresentare il “bene”, come talvolta viene argomentato con una certa enfasi retorica». Ci sono troppi scrittori che amano mostrarsi in quel «ciarlante gioco di esibizioni» che trova il suo vertice nei festival e nei premi, e troppi libri velenosi, inutili, superflui, che dicono il già detto: tutte scritture a perdere... Poi Ferroni fa letteralmente a pezzi tutti gli scrittori di successo, gli autori-spettacolo che hanno vinto gli ultimi «Strega» e «Campiello»: Paolo Giordano (del suo romanzo salva il titolo, peraltro fatto in casa Mondadori, e la brillante operazione editoriale costruita attorno al mito dello scrittore «giovane», per il resto solo «disarmante banalità»); Margaret Mazzantini (autrice di romanzi caratterizzati da «narrare sciatto», «afflato patetico», «scrittura grigia», “nobilitati” dai film, uno già girato e uno da girare, di Sergio Castellitto, il marito); Tiziano Scarpa (autore di un libro «artificiale», «inessenziale», che si distingue per una «evaporazione della scrittura», banale, e per di più privo degli atout mediatici dei colleghi appena citati); lo stesso Niccolò Ammaniti «che si diverte a combinare le tessere di un vuoto tutto artificiale, assolutamente privo di spessore critico»...
Senza dimenticare le centinaia di non-scrittori che inondano il mercato dei loro libri inutili: biografie, barzellette, interviste, considerazioni di varia attualità pubblicati da vallette, sportivi, deejay, politici, a partire da Walter Veltroni e il suo Noi, romanzo «grigio» e «noioso»: «Un ulteriore contributo all’eccesso e all’inutilità dei libri, ancora altro spazio sottratto a una letteratura possibile. Forse la sinistra avrebbe bisogno di politici meno inclini ad esibire se stessi in evanescente letteratura, in corrivi orizzonti mediatici».
Ferroni è posato, argomentativo, preciso. Ma scatenato. E, al di là della scontata e fiacca tirata antiberlusconiana del capitolo introduttivo, anche originale. Strappa annoiato la «balzana» etichetta «New Italian Epic» appiccicata su certa recente narrativa italiana; supplica editori e scrittori di smetterla con quest’intollerabile proliferare di romanzi gialli e noir; ce l’ha con i «Ris» dell’arte che sottopongono le spoglie di padri della patria (Dante, Petrarca, Galilei, Caravaggio...) a indagini scientifiche «sostenute da sostanziosi finanziamenti, ma senza alcuna utilità storica, in «un impasto grottesco e sinistro di follia necrofila e funebre comicità»; bacchetta le pagine culturali dei giornali che invece di far scrivere i critici di professione (come lui) preferiscono dare spazio agli scrittori e ai giornalisti (come noi) «spesso solidali e amici dello scrittore che recensiscono»; ridicolizza l’esaltazione delle serie televisive da parte di critici come Aldo Grasso, quando «al capolinea anche dei migliori telefilm rischia di esserci la tv spazzatura, la volgare ed aggressiva proiezione di emozioni e di gesti quotidiani, o lo sguardo indiscreto nel buco della serratura, che spesso trova modello proprio nelle immagini di vita date dalla serialità». Arriva addirittura, parlando di Gomorra, a distinguere - col rischio di macchiarsi del reato di lesa maestà - tra valore civile dell’opera («eccezionale») e valore letterario («non un capolavoro»).
Dubitando, infine, della stessa forma «classica» del romanzo come strumento di indagine della realtà: forse meglio il racconto o il «falso romanzo»
sospeso tra saggistica, documento storico, cronaca, autobiografia e autofiction, come i libri più recenti di Cavazzoni, Siti o Moresco. Unici, e rari, «esemplari» ancora pensanti in questo grande bestiario culturale italiano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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