Bisogna riconoscerlo: sta facendosi appassionante il dibattito sullo scontro Venezia-Roma tra la sessantatreenne Mostra del cinema e la nascente Festa del cinema. Da un lato il Leone che spiega le sue ali, dall'altro la Lupa che ulula alla luna. In mezzo i giornali, perlopiù di sinistra, che si stanno divertendo a fare a pezzi, giorno dopo giorno, quella bozza d'armistizio che i titolari politici delle rispettive manifestazioni, il manager Davide Croff e il senatore Goffredo Bettini, avevano provato a siglare un mesetto fa sotto lo sguardo micionesco del ministro Rutelli. La pace preventiva sembrava fatta, benché fatta di niente; e invece, zàcchete, all'indomani della conferenza stampa veneziana, la disfida teorico-cinematografica s'è riattizzata, finendo in prima pagina. Una raffica di commenti al vetriolo quasi tutti critici nei confronti della Festa capitolina, che vuole essere orgogliosamente «di popolo», quindi diffusa, democratica, trasversale, pure danzante, tra la kermesse sfavillante e l'ottobrata romana. Insomma, un Massenzio riveduto e corretto, ma non si può dire, e infatti Bettini, un po' offeso nei confronti di Roberto Silvestri che sul manifesto teme - sbagliando - una cosa tra Sanremo e la Festa dell'Unità, risponde: «Piuttosto saremo una fabbrica popolare, ma di qualità, aperta a tutti i linguaggi». Suona bene, ma francamente significa tutto e niente.
Naturalmente i due direttori, ossia il mandarino Marco Müller e l'ecumenico Giorgio Gosetti, si guardano bene dal farsi la guerra sui giornali; anzi oggi è tutto un minuetto, magari anche sincero. Sul fronte delle anteprime mondiali, Roma non può - per ora - minimamente competere con Venezia, e infatti Dalia nera di De Palma, sognato dai romani, è finito dritto in concorso al Lido. Però accapigliarsi sui due eventi, rivelatori di gusti, sensibilità e amicizie diversi, è un gioco intellettuale che stuzzica le penne, tanto che il Corriere della Sera l'ha subito rubricato alla voce «Mal di pancia della sinistra».
In realtà, è solo un pretesto, un appiglio per parlare d'altro. Così se Antonio Scurati, che vive a Milano ed è amico del regista Giovanni Maderna, scrive su l'Unità una letterina polemica nella quale chiede a Veltroni di essere «rassicurato sul fatto che la moltiplicazione delle vetrine sia accompagnata dal tramestio dell'oscuro lavoro artigiano che sale ai retrobottega» (cioè il film di Maderna), un altro scrittore, Roberto Cotroneo, vivendo a Roma e frequentando altri giri, decide sempre su l'Unità che la Festa è più rock, dinamica e innovativa di Venezia perché se ne infischia dei critici cinematografici, li considera superflui, reperti del passato. Così scopriamo che «la Festa di Roma non va giù a nessuno» (?) perché al Lido «i critici sono riveriti, coccolati e incensati come star d'altri tempi», quindi spiazzati da un evento che mira a «trasformare quest'Italia in qualcosa di meglio di un paese culturalmente marginale e ininfluente».
Ce l'ha con la casta dei quotidianisti, i cosiddetti «senatori» della recensione con fotina accanto, quelli che non mollano mai, preferendo designare «i delfini» che dovranno «un giorno, assai lontano, sostituirli». Magari un po' è così.
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