Nel mondo Fiat pare di avvertire qualche rullare di tamburi di guerra. Le questioni aperte, le manovre nei rapporti interni si intrecciano con movimenti nei terreni dinfluenza del Lingotto. I vari problemi di Termini Imerese, Alfa Romeo, Pomigliano dArco trovano consonanze con questioni che riguardano Intesa Sanpaolo, Telecom Italia, persino la Juventus. A posizioni di merito (come può unimpresa essere competitiva se le simpone di tenere in vita impianti che non saranno mai economici come a Termini?) rispondono altre posizioni di merito (perché si stringono accordi di difesa occupazionale con il governo americano e si è assai più rigidi con quello italiano? E perché, poi, non si vendono marchi non più utilizzati come quello Alfa Romeo?) con divisioni tra chi esalta Sergio Marchionne e chi lo critica.
Alla guerra su che cosa deve fare la Fiat in quanto tale, si accompagnano le schermaglie sul suo sistema di influenza: uomini storicamente legati al Lingotto, come Franco Bernabè e Gabriele Galateri di Genola, rafforzano o invece abbandonano i loro legami storici nella lotta per determinare gli assetti di Telecom Italia con esiti che avranno un bilanciamento innanzitutto sul fronte di un istituto come Intesa Sanpaolo, dove gli uomini più affini a Marchionne, a partire da Angelo Benessia (presidente del socio di maggioranza relativa, Compagnia di San Paolo, di Intesa Sanpaolo) si scontrano con la Torino autonoma dagli Agnelli, però oggi parzialmente intricata ai giochi dentro la «famiglia», rappresentata da Enrico Salza. Anche la Juventus, che con la decapitazione di Luciano Moggi, Antonio Giraudo e Roberto Bettega aveva testimoniato un colpo alla cordata degli eredi di Umberto Agnelli, vede ora con il declino del grande club sportivo un ritorno di influenza, con Bettega, degli «umbertini». Ogni «caso» merita giudizi validi in sé, ma non di rado contradditori: è difficile affermare che in una Sicilia dallindotto debole possa stare in piedi una sana industria di auto bisognosa di microimprese coordinate, ma si deve convenire su come unimpresa che tanto ha ricevuto dallo Stato (vedi anche i recenti provvedimenti sulla rottamazione) abbia doveri verso un territorio che richiede investimenti strategici.
È sacrosanto tirare un bilancio negativo dellacquisizione dellAlfa Romeo da parte dalla Fiat e anomalo, però, voler far pagare conti di venti anni fa a Marchionne. È utile che il Lingotto eserciti un peso anche nella finanza, ma è indispensabile che la prima banca del Paese sia guidata da manager autonomi. E così via sulle questioni di merito, fino allopportunità o meno di licenziare Ciro Ferrara. Però, al di là delle «note», è sulla «musica di fondo» che ci si deve esprimere. La Fiat è stata grande protagonista, innanzitutto nel bene, anche del Secondo dopoguerra, strategica nel dare sostanza al nostro sistema produttivo. Il suo sviluppo si è intrecciato con un assetto sostanzialmente oligarchico (pubblico e privato) del potere economico andato in crisi tra la fine degli anni 80 e 90, spiazzando la stessa società torinese, con momenti terribili allinizio del 2000. Oggi, però (per quanto si possa volere una Juventus di nuovo protagonista del campionato, valorizzare manager legati al Lingotto anche in imprese extra auto, elementi di consolidamento della finanza anche grazie allintervento di antiche famiglie, una Sicilia ricca di industrie), il principale nemico da avversare è limpossibile ritorno del «peso politico» della Fiat e di annessi assetti oligarchici.
I pasticci combinati dalla Confindustria pro-Fiat e pre-Marcegaglia danno unidea di che cosa questi equilibri provocherebbero in politica e nelle relazioni industriali.
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