Fiat, sarà venerdì il D-Day di Pomigliano

Da ieri è più che mai nelle mani dei sindacati il destino dei 5.200 dipendenti dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco, insieme a quello di tutti i lavoratori dell’indotto e delle aziende fornitrici. Se venerdì prossimo, all’incontro di Roma sul documento conclusivo presentato da Fiat con alcune piccole limature sulla riorganizzazione del lavoro nella fabbrica, dai sindacati arriverà una risposta negativa, il futuro di Pomigliano potrebbe ricalcare quello di Termini Imerese: adieu. Gli investimenti (700 milioni) saranno con tutta probabilità dirottati su Tychy, in Polonia, e la nuova Panda nascerà all’Est, facendo compagnia all’attuale modello, che continuerà a essere prodotto, e alla 500. Il «suicidio» di massa, dunque, sarebbe compiuto. Insieme all’affossamento della fabbrica campana, i suoi dipendenti perderebbero anche i 3.200 euro lordi annui previsti dal Lingotto per il rilancio dell’impianto.
Ieri, a Torino, nove ore di trattativa non sono servite a sindacati e Fiat per trovare un accordo. L’azienda ha presentato il suo testo conclusivo dopo avere accolto alcune delle richieste dei sindacati, ma le distanze rimangono. Fim, Fiom, Uilm e Fismic consulteranno le loro strutture interne, poi domani faranno una riunione unitaria con i delegati campani e i segretari generali nazionali. L’appuntamento finale, a questo punto, è stato rinviato a venerdì pomeriggio in Confindustria, al termine del tavolo su Termini Imerese convocato al ministero dello Sviluppo economico. Sulla trattativa ha aleggiato per un po’ di tempo lo spettro di un accordo separato, indicato a metà giornata dalla Fismic, ma alla fine del confronto tutte le sigle hanno preferito parlare di «lavoro comune», auspicando «una conclusione condivisa». Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha accusato la Fiom di «rifiuto anacronistico e inspiegabile». «Dichiarazioni inaccettabili, da respingere al mittente. Si rivolga alla sua associata Fiat che vuole cancellare un contratto nazionale di cui è firmataria», ha replicato Giorgio Cremaschi, del sindacato legato alla Cgil. «Stiamo cercando di arrivare in fondo tutti insieme perché vogliamo portare lavoro a Pomigliano, ma il testo è complicato soprattutto per quanto riguarda le deroghe. Ha bisogno di manutenzioni», riconosce Bruno Vitali (Fim). Giovanni Sgambati, segretario generale della Uilm Campania, parla di «uno snodo cruciale e difficile che richiede responsabilità di tutti», mentre per il segretario generale della Fismic, Roberto Di Maulo, «ci sono stati passi avanti, ma ancora insufficienti» e il segretario confederale dell’Ugl, Cristina Ricci, spera in «una soluzione condivisa da tutte le parti». L’irriducibile Enzo Masini (Fiom) dice chiaramente «di non essere soddisfatto» e che «non si è di fronte a un accordo separato».
E, tanto per cambiare, pone un altro problema: «Su permessi ed esigibilità non c’è stato alcun passo in avanti e a questi si aggiunge anche quello sulla legge elettorale per quanto riguarda i permessi per i rappresentanti di lista». «Se non ci fossero in gioco migliaia di posti e uno stabilimento - aggiunge - avremmo già rotto la trattativa».
Comunque, è come se lo avessero già fatto. La parola, a nostro parere, dovrebbe passare subito ai dipendenti di Pomigliano. Sono loro al centro del problema, sono le loro famiglie che rischiano seriamente di piombare nel baratro.

Anche loro potrebbero decidere la via dell’«harakiri», ma potrebbero anche sposare, nero su bianco, il piano Fiat e lo sviluppo che il rilancio di Pomigliano assicurerebbe all’economia del Sud. Quindi, comincino a farsi sentire. Il tempo è tiranno.

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