«Eppure la gravidanza di Filippo era andata benissimo. Maria e Luca non riuscivano ad accettare la diagnosi che sembrava aver segnato il destino del loro primo bambino. Un parto regolare, bene le prime due settimane ma poi i primi segni di uninspiegabile anemia avevano cominciato ad allarmare i giovani genitori. Anche il pediatra dopo una prima visita di controllo che era sembrata rassicurante aveva dovuto ricredersi e programmare alcuni esami del sangue. Il responso del laboratorio fu inequivocabile e drammatico: talassemia maior».
Comincia così la storia raccontata dal dottor Paolo Rebulla che al Policlinico si occupa dei trapianti di cordone ombelicale. Maria e Luca non sapevano nulla di quella malattia genetica che compare quando il bambino ha la sfortuna di ereditare da entrambi i genitori un gene alterato implicato nella produzione dellemoglobina, il pigmento rosso che trasporta lossigeno nei globuli rossi. Unalterazione che richiede periodiche trasfusioni di sangue per tutta la vita. Il medico spiegò ai genitori terapie e possibilità, anche quella di un trapianto di cellule staminali, unopzione terapeutica concreta, ma per la quale è necessario disporre di un donatore sano e compatibile al 100 per cento. Entrambi i genitori si offrono per il trapianto, ma la possibilità viene subito scartata perché la compatibilità è del 50 per cento. Il donatore ideale in questi casi è un fratello o una sorella che abbiano gli stessi caratteri per un complesso di geni che governa la compatibilità dei trapianti, denominato Hla. La probabilità che due fratelli abbiano Hla identici è del 25 per cento. Luca e Maria hanno avuto altri due bambini, Federico e Marta. In entrambi i casi hanno chiesto di conservare il sangue del cordone ombelicale.
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