Un film da 15mila dollari batte Michael Moore

Gli americani stanno impazzendo per un film costato appena 15.000 dollari. Paranormal Activity, girato in una stanza con la telecamera sulle spalle dall’esordiente di origini israeliane Oren Peli. Lo scorso fine settimana ha incassato quasi 8 milioni di dollari. Martedì è risultato terzo al box office, portandosi a casa un altro milione. Alla Paramount, distributore di Paranormal Activity, stanno pensando di espandere ulteriormente la programmazione. Se il film regge questi ritmi nell’ultima settimana di ottobre, coincidente con la festa di Halloween, potrebbe diventare il nuovo The Blair Witch Project. Ma su un’altra notizia vale la pena di riflettere: il tonfo di Michael Moore. Il suo Capitalism: a Love Story sembra aver finito la benzina. Uscito il 2 ottobre il film ha incassato poco più di 9 milioni di dollari. E considerando le uscite sugli schermi nelle prossime tre settimane, potrà fare ben poco. Eppure doveva essere il contrario. Capitalism: a Love Story sulla carta rappresentava la festa di tutti gli americani liberal, radical, democratici e progressisti per salutare l’uscita di scena dei repubblicani e tenere a mente ragioni e responsabilità dell’attuale disastro economico. Ma a guardare i numeri alla festa molti hanno deciso di non partecipare. Michael Moore voleva raccontare agli americani il più grande furto commesso ai loro danni. E per farlo aveva tutte le carte in regola. Il clima favorevole, il consenso della stragrande maggioranza dei media, l’eccitazione suscitata dal film alla Mostra di Venezia. Ma non è bastato. Il risultato è pari alla metà di quanto ha incassato Fame-Saranno famosi, prodotto vecchio di trent’anni costato quanto una puntata di un serial televisivo, e rispolverato da Hollywood per la televisione e per i mercati esteri.
Il segnale è chiaro: Michael Moore deve cambiare direzione. La sua radicalità ha ormai esaurito la spinta. Se John Rambo ha incarnato meglio di ogni altro il «corpo» dell’ideologia repubblicana di Reagan, Michael Moore è stato il «corpo» del sogno diventato realtà di Obama. E non è una questione di duri contro flaccidi. È una questione di testa. Rambo doveva rimarginare la ferita del Vietnam, Moore la ferita della sconfitta di Al Gore con Bush nel 2000. Invece di ragionare sulle cause della sconfitta, si preferì imboccare la scorciatoia dei brogli, della grande rapina al treno del progresso. Per raccontare questa favola serviva un semplificatore, in grado di narrare accadimenti e storie tagliandole con l’accetta. Michael Moore si è calato a perfezione nel ruolo. Mascherandosi da redivivo Orson Welles, ha attaccato a testa basta con Bowling a Columbine (2002), Fahrenheit 9/11 (2004), Sicko (2007) e l’ultima fatica Capitalism: a Love Story. Il possesso e la vendita delle armi, la tragedia dell’11 settembre, il mostro della sanità e l’avidità della finanza sorretta dalla politica. Nei documentari di Michael Moore non c’è spazio per le sfumature. Tutto è bianco o (soprattutto) nero. A prevalere nel suo lavoro è il cuore nero dell’America. Un cuore incarnato da una cricca di oligarchi, con la famiglia Bush al centro, riuscita nella suprema missione di rovinare la nazione. Michael Moore è così. Un carro armato con cingoli pesanti, impegnato a triturare ogni minimo fuscello si pari sul suo passaggio.
Ora che il nemico Bush è andato a casa, Michael Moore dovrà cambiare mestiere? Scordiamocelo. L’orso va in letargo, ma poi si sveglia e deve procurarsi cibo. I risultati poco incoraggianti di Capitalism: a Love Story e il nuovo inquilino della Casa Bianca, gli impongono una scelta.

Diventare una sorta di Woody Allen impegnato a sfornare film per gli europei, che lo adorano, vezzeggiano e finanziano; o fare ciò che sa fare, azzannando la preda senza pietà. Detto in altri termini: diventerà un orso da circo ammaestrato, che a orario fisso monta sulla bicicletta per divertire il pubblico; o preferirà seguire la natura sanguinaria del cacciatore? Presto lo sapremo.

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