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«La filosofia del provare per credere»

Prezzi bassi, televendite e un bus che portava i clienti a Biella

Si commuove ancora oggi. «Io e Giorgio Aiazzone formavamo una persona sola, eravamo inscindibili». Guido Angeli resta per molti italiani l’icona elegante del “provare per credere”, quei pollici in primo piano sullo schermo delle televendite anni Ottanta.
Angeli, come nacque quel sodalizio?
«Venne lui a cercarmi, a Milano, a Rete A, dove conducevo Accendi un’amica, un programma del mattino quando la tv del mattino non esisteva. Il maresciallo di servizio mi avvisò: “La aspetta un signore”. “Non ho tempo, lo mandi via”».
Aiazzone tenne duro.
«Mi attese per ore. Infine gli parlai, lui mi disse che stava andando a Publitalia per chiudere un contratto, ma aveva cambiato idea ed era venuto da me, come folgorato da un’intuizione. Io firmai e partimmo con le pubblicità. In verità io non vendevo i mobili, vendevo la strategia del mobilificio, la filosofia Aiazzone, entravo sorridente nelle case degli italiani e li portavo verso Biella».
Come nacque il provare per credere?
«Per disperazione: eravamo chiusi in studio da 48 ore, caffè e panini. Giorgio aveva addosso una coperta, io non ne potevo più. Buttai lì, quasi in trance: “Dite che vi manda Guido Angeli... provare per credere”. E accompagnai le parole con il giro di pollici all’insù».
Lui?
«Lui si mise a gridare: “Questa è buona, questa è vincente”. Mi spiegò che aveva visto giusto: aveva comprato due statuette antiche in un magazzino, con i pollici ben in vista. Chissà perché aveva pensato a me, certo alla fine vinse la sfida. E un giorno, l’antivigilia di Ferragosto, mi convocò a Biella: era in macchina, a piedi scalzi, ascoltava canti gregoriani in latino. Mi portò sulla strada di accesso al mobilificio: c’erano chilometri di coda, i vigili impazziti. Si voltò verso di me: “Guarda cosa abbiamo inventato”».
Poi arrivò lo schianto sull’aereo.


«Io lo ricordai con un monologo che è entrato nella storia della tv. C’era una sedia vuota, quella su cui lui era seduto il giorno in cui inventammo lo slogan del “provare per credere”, e poi c’ero io. Pensavo di fermarmi dopo cinque minuti, invece andai avanti per tre quarti d’ora».

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