Cultura e Spettacoli

Finalmente un Nobel fuori moda

Dal 2001 a oggi sono già tre gli inglesi ad aggiudicarsi il Nobel per la letteratura: Naipaul, Pinter, e ora Doris Lessing.
Sono osservazioni, niente di più. Ognuno di noi ha le sue opinioni sui vincitori. Due anni fa - mi ricorda un diavoletto - vinse Pinter, che a differenza di altri più importanti di lui ha avuto la buona idea di non morire. L’anno scorso vinse Pamuk che non sa concludere un romanzo che sia uno. Ricordiamo che dieci anni fa vinse uno - Dario Fo - che non è nemmeno uno scrittore. Nel 2001 vinse Naipaul, antiislamico e anglofilo fino alle budella, mentre ancora si contavano i morti dell’11 settembre.
Magari si può essere grandi scrittori anche se non si sanno concludere i romanzi, anche se non si sopportano i musulmani, anche se si è comunisti. Basta non essere cattolici, o americani (che non vedono un Nobel dal 1993, Toni Morrison), e il Nobel lo può vincere chiunque. È solo un’altra osservazione.
Doris Lessing, però, non è «chiunque». Inoltre ha studiato (per poco) in un collegio cattolico, in Rhodesia, perciò quest’anno il Nobel si tinge di cattolico, è il massimo cui si può aspirare. Non credo comunque che una sola di quelle suore si possa ricordare di lei: dovrebbe avere più di cent’anni. Si potrà discutere se sia la più meritevole del mondo. Però che Doris Lessing sia una vera scrittrice e costituisca, nonostante le mode passate sulla sua testa, un modello sulla posizione e il senso del fare letteratura, su questo non possono esserci dubbi. Potranno essercene sulla valutazione circa la qualità - ma queste sono chiacchiere latine, da cruscanti, tipiche di un mondo in cui la letteratura è (come da noi) uno sport per le minoranze ricche.
La biografia di Doris Lessing appartiene a un genere di biografie a noi ignote. Inglese ma nata in Iran, Doris May Tayler (questo il nome da ragazza) si trasferisce nella Rhodesia del Sud, oggi Zimbabwe. A quindici anni lascia la scuola, a diciannove si sposa, ha due figli, lascia il marito, sposa un tedesco da cui prende il nome e un figlio.
La sua letteratura è come la sua vita, è un mondo. E Doris ha un temperamento letterario poco incline alla rifinitura: lei vuole abbracciare quel mondo, e più lo abbraccia più si rende conto di quanto è grande. Le sue novelle e i suoi romanzi più belli sono pieni di questa vastità. Il suo mondo è un mondo antico per molti versi (famiglie itineranti, frontiere africane, memorie, donne intrepide), ma dagli improvvisi risvolti ultracontemporanei.
Ci ha donato stupende immagini africane - niente a che vedere con la Blixen o con Hemingway - un grande ritratto della madre, racconti sui gatti, storie di fantascienza (che la allontanarono dal Nobel che pareva a portata di mano dopo l’uscita de Il taccuino d’oro, 1963). È stata una profetessa femminista senza essere femminista (troppo laica, Doris, per non fiutare la radice suffragetta del femminismo), è stata comunista fino al momento in cui sposò un vero comunista. La sua scrittura è semplice, diretta; la sua forza visionaria è sempre al servizio del realismo. Doris Lessing non dice parole, come fanno i letterati: dice cose. La sua è una letteratura felicemente grezza, e io la amo per questo.
Leggerla oggi produce una strana impressione: l’impressione di una familiarità perduta. Noi e lei stiamo su due sponde diverse del fiume. Noi leggiamo autori iraniani o pakistani che hanno studiato a Stanford o a Cambridge e bevono Coca-Cola. Siamo i pulcini del mondo globalizzato, che non distingue più l’esotico e il casereccio, visto che anche noi mangiamo kebab in pausa-pranzo, mentre per mangiare piemontese dobbiamo prenotare.
In questo senso il mondo di Doris è antico, la sua Rhodesia è inglese. Eppure Doris Lessing ha saputo intuire in anticipo, e non in un libro soltanto, la frattura di cui parla anche la motivazione del premio. Sapeva che la diversità ben presto non sarebbe più appartenuta alle savane dell’Africa, ma ce la saremmo trovata in casa.
Tra i suoi libri quello che amo di più - anche se non è uno dei più famosi - è Il quinto figlio (1988), che presenta un indimenticabile ritratto di donna alle prese con un figlio diverso dagli altri: piccolo, brutto, cattivissimo - una specie di elfo, che provocherà la devastazione della famiglia. Colpiscono, in questo libro, due cose. La prima è l’attenzione alla diversità di questo figlio: non solo alla sua biodiversità, come si dice oggi, ma al fatto che, a un certo punto, la vita richiede un salto, non può procedere come su un’unica strada. La letteratura ha senso se parla di quel salto, il resto a chi importa? Questo figlio strano incarna tale necessità, e dal 1988 a oggi la sua sfida è diventata la sfida stessa della Storia: non solo gli immigrati, ma tutti noi dobbiamo imparare a vivere in un mondo nuovo: la chiamano globalizzazione.
La seconda cosa che colpisce in Il quinto figlio è la risposta della madre alla diversità del figlio: accetta tutto, persino lo sfascio dell’istituto-famiglia, la dissipazione di un amore che all’inizio pareva la sola cosa da conservare, mentre cresce in lei, potente e disperata, la necessità della conoscenza: osservare, conservare, riflettere, lasciar crescere le cose dentro di sé, con pazienza e dolore.
In questa forza che permette al mondo di espandersi in noi, secondo misure ignote, sta il fascino di questo terzo Nobel inglese in sette anni.

Meritatissimo.

Commenti