Alla fine il Boris in russo diventa un inno alla pace

In un'opera senza la protagonista femminile. Meloni e von der Leyen diventano le due eroine

Alla fine il Boris in russo diventa un inno alla pace

Boris Godunov, delitto e castigo. Ma anche donne e potere in quella stupefacente messa in scena che è il mondo reale, così spesso ben più sceneggiato della miglior trama d'artista. E così un'opera che nella sua prima versione fu bocciata dalla commissione dei Teatri imperiali di San Pietroburgo per l'assenza di una importante figura femminile, sul palco reale del sant'Ambrogio di quest'anno ha assegnato a due valchirie le parti delle protagoniste. Perché a fianco del capo dello Stato Sergio Mattarella salutato dal solito debordante applauso, ha debuttato la premier Giorgia Meloni in una compresenza da strappo al protocollo benedetta dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Segno forse di tempi difficili che, nell'accanirsi delle crisi sanitarie e belliche, hanno forse deciso di affidarsi a un rivoluzionario pink power. Con Milano che ancora una volta incornicia la svolta epocale nell'immutabile tradizione del suo più granitico rito ambrosiano, alla faccia di soloni e politicanti della sinistra che malauguravano e speravano in un'Italia ripudiata dall'Europa. Niente di tutto questo come hanno dimostrato i due giorni a Milano della von der Leyen evidentemente per nulla spaventata da quell'«Io sono Giorgia». E lei, peraltro, canta l'inno e l'esame dalla sua prima Prima, non solo scaligera, l'ha superato a pieni voti. Conquistando un'apertura di credito anche nel salotto buono non solo della finanza, ma anche della cultura del nostro Paese.

Radici (e non passato), ma anche futuro celebrati ieri con quell'Ur-Boris messo in cartellone nella versione primigenia del 1869 che è stata più forte anche del tentativo di censurare la storia, il genio e perfino gli artisti russi per protesta contro i missili su Kiev. E, invece, come era prevedibile, grazie al coraggio del sovrintendente Dominique Meyer, il potere salvifico del genio ha provocato esattamente l'opposto, trasfigurando lo zar Putin in un fantasma sanguinario che ha levato dagli stucchi e dai velluti del Piermarini un inno sacro ai popoli oppressi. Ucraino compreso. L'ha detta bene il direttore di Brera James Bradburne: «Questa è una prima eccezionale, perché la cultura è un'arma contro la bestialità. È con la cultura che si combatte la guerra».

E non sarebbe potuto essere altrimenti di fronte alla reinterpretazione filologica del maestro Riccardo Chailly con la drammatica e sontuosa regia di Kasper Holten che hanno attinto allo spirito di Shakespeare e Dostoevskij, con tanto di «idiota» peraltro «benedetto da Dio», filtrati dal testo di Pukin che ha dato vita al «Boris Godunov» così spesso messo in cartellone alla Scala che alla fine le ha regalato una pioggia di fiori. Lingua e spirito russi con gran goduria dei melomani di cui non sono sfuggiti i sorrisi ironici rivolti alle sciure attese da tre ore abbondanti (e terrificanti per loro) in lingua originale senza gelide manine, vissi d'arte e un bel dì vedremo. Niente intrecci amorosi, tradimenti e amanti pazzi di gelosia che s'immolano, ma una gigantesca pergamena su cui scorre il diario di Pukin che racconta dell'eterna passione per il potere, omicidi e sensi di colpa nell'aleggiare dell'infante zarevitc Dmitrij che lordo di sangue aleggia su tutto e tutti.

Costumi e trucchi splattere alla Dario Argento a incastonarsi nella meraviglia del sontuoso rito ortodosso. Con la voce del popolo si fa coro, per ricordare a tutti come la vera legittimazione della corona proprio lì e in Dio trovi il suo sacro fondamento.

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