da Milano
È il definitivo addio al capitalismo d'assalto dell'era Eltsin: il tribunale di Mosca ha dichiarato ieri la bancarotta della compagnia petrolifera Yukos. Una fine annunciata: già il 25 luglio scorso l'assemblea dei creditori aveva votato per la liquidazione dellex colosso del greggio russo, un tempo guidato da Mikhail Khodorkovski. Ma il destino di Yukos era segnato addirittura dall'ottobre del 2003, con l'arresto di Khodorkovski, seguito da una pesante condanna a otto anni di carcere duro da scontare in Siberia. Una parziale rinazionalizzazione non si era fatta attendere: nell'autunno del 2004, la compagnia Rosneft (all'epoca al 100% di proprietà dello stato) si era accaparrata per una somma irrisoria la più lucrosa delle proprietà di Yukos, i campi petroliferi di Yuganskneftegaz. Lo spettro della bancarotta si è materializzato questa estate, prima con una contestata riunione dei creditori che ha avanzato la richiesta di liquidazione, poi con le polemiche dimissioni del numero due dell'ex gigante privato, l'americano Steven Theede, rifugiatosi a Londra per sfuggire al destino del suo patron Khodorkovski e rimasto a lungo l'ultimo bastione di difesa. Il commissario liquidatore Eduard Rebgun non ha lasciato scampo agli avvocati di Yukos: il gruppo a suo parere, aveva beni per non oltre 15 miliardi di dollari a fronte di debiti per oltre 18. Ora andrà in vendita persino la casa di Khodorkovski: la moglie Irina e i tre figli stanno già cercando un'altra sistemazione. Messosi di traverso al Cremlino per motivi ideologici oltre che economici Khodorkovski è uscito annientato dallo scontro frontale con Putin.
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