Roma - Berlusconi, Letta, Tremonti, Maroni, Alfano, Montezemolo, Marcegaglia e chi più ne ha più ne metta. Fini ormai indica come premier ideale chiunque: mancano soltanto Di Pietro, Vendola, Pluto e Clarabella. E ancora: dialoghiamo, anzi no. Perché, ha sentenziato ieri Gianfranco a un convegno su Pinuccio Tatarella al teatro Adriano di Roma: «Con Berlusconi, in questo clima, è impossibile fare riforme condivise. Il problema del Pdl e di Berlusconi è l’assenza di identità culturale e politica. Il Pdl è tutto e il contrario di tutto». Da che pulpito. Fini disse di essere «la terza gamba della maggioranza» (8 ottobre 2010) ma anche di voler fare lo sgambetto all’esecutivo: «Da mercoledì siamo all’opposizione», giurò dall’Annunziata il 12 dicembre 2010.
Chiamatelo estremo tatticismo o schizofrenia ma le giravolte del presidente della Camera fanno venire il mal di testa. Alla vigilia dello strappo definitivo col Pdl, Gianfranco provò a ricucire una situazione già slabbrata a dismisura: «Io e Silvio dobbiamo onorare un impegno politico ed elettorale con gli italiani» (28 luglio 2010). Mentiva. Persino nel catino di Mirabello, i primi di settembre, giurò: «Si va avanti e lo si fa per tener fede allo spirito delle origini, si va avanti per non tradire lo spirito del Pdl, si va avanti senza cambi di campo, senza ribaltoni e ribaltini, si va avanti convinti della necessità di portare a termine il patto scritto con gli elettori». Mentiva. A Bastia Umbra, soltanto due mesi dopo, pigiò sull’acceleratore: «Berlusconi si dimetta, salga al Colle e apra la crisi. Serve un colpo d’ala». Di più: «Non è il Pdl il nostro avversario». Mentiva. Ma allora bastava chiedere al Cavaliere un passo indietro e non escludeva un Berlusconi bis. Poi, convinto di abbatterlo il 14 dicembre, giorno della mozione di sfiducia andata a vuoto, Fini provò a corteggiare Tremonti: «Serve un nuovo governo di centrodestra e un esecutivo guidato da Giulio Tremonti lo sarebbe certamente». Quello stesso Tremonti strapazzato nel comizio di Mirabello («Poteva evitare quei tagli lineari alla spesa che hanno determinato clamorose proteste») e a Bastia Umbra («Ha utilizzato i fondi Fas come un bancomat per accontentare la Lega»). Insomma, Tremonti premier ideale? Mentiva. Poi è arrivato il momento di candidare a premier il big del Carroccio Roberto Maroni, nel tentativo - vano - di scardinare l’asse Lega-Pdl. Quello stesso Maroni sbeffeggiato a più riprese perché esponente di un partito «dall’egoismo strisciante», a cui «non interessa nulla di ciò che accade sotto il Po», che «detta la linea a un governo in cui non possiamo più stare» e che «non ha compreso che la classe dirigente del Sud non è meno capace di quella del Nord» (Bastia Umbra, 7 novembre 2010). Insomma, Maroni premier ideale? Mentiva. A questo punto, pur di dare la spallata al Cavaliere, andrebbe bene chiunque, come dichiarato dal colonnello finiano Adolfo Urso: «Sarebbe più facile se Berlusconi facesse un passo indietro. Se lasciasse, per esempio, a Maroni, Tremonti, Letta o Alfano». Già, Alfano, lo stesso Guardasigilli demolito dall’altro colonnello futurista Carmelo Briguglio: «In quale Paese occidentale si è mai visto un ministro della Giustizia che partecipa a riunioni con gli avvocati ai fini della difesa di un imputato o indagato, a maggior ragione se si tratta del presidente del Consiglio?».
Così, in una sorta di gioco dell’oca in cui ogni giorno si buttano lì i nomi giusti da piazzare a palazzo Chigi al posto di chi ha vinto le elezioni, Fini perde sempre più credibilità. Continua a corteggiare Montezemolo, supposto pilota ideale del Terzo polo, sebbene il presidente della Ferrari abbia già assicurato al premier che se scenderà in politica lo farà con una sua lista civica e alleandosi col centrodestra. E strizza l’occhio alla Marcegaglia, già implicitamente citata da Bocchino durante la convention di Todi, lo scorso 29 gennaio. Di fatto, sulla questione, Fini non sa ancora che pesci pigliare, oltre a quelli presi in faccia anche ieri.
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