An, Fini firma la tregua e incassa la fiducia
4 Luglio 2005 - 00:00Parola dordine: dissipare i veleni inserendo ogni leader nellorganigramma. Ma potrebbe non bastare
Fabrizio de Feo
da Roma
Le nuvole di una clamorosa spaccatura interna si addensano su Gianfranco Fini fino a poche ore dal termine dellassemblea nazionale. Ma alla fine il «miracolo», in verità dato per scontato da molti, si compie. Il leader di An cambia pelle rispetto al giorno precedente. Ammorbidisce i toni. Dosa attentamente bastone e carota. E usando la formula più neutra possibile - «se qualcuno si è sentito offeso dalle mie parole gli chiedo scusa, non ho mai inteso fare una relazione di rottura» - fa il piccolo passo, quellaccenno di «mea culpa» che serve ai dirigenti di An per uscire dal vicolo cieco e a Fini ad incassare la pace e la quasi unanimità - sono cinque alla fine i voti contrari - sulla sua leadership.
Cè anche unaltra puntualizzazione che serve a riempire il vuoto tra il leader e il corpo del partito. Fini sposta il mirino delle sue invettive dalle correnti al «correntismo», ovvero sulla eccessiva litigiosità interna che immobilizza il partito a livello locale. «È il correntismo esasperato, un meccanismo sfuggito di mano a tutti, la vera metastasi». Il tutto con una sfida lanciata ai «colonnelli»: trasformare le correnti da centro di organizzazione e potere interno in correnti di elaborazione delle idee «perché non è più possibile che An appaia allesterno come una federazioni di tre piccoli partiti».
Sui punti-chiave, sulle «condizioni» che alla vigilia gli erano state dettate dai colonnelli in modo fermo - una convinta abiura referendaria e lincompatibilità tra incarichi di governo e di partito - il ministro degli Esteri va dritto per la propria strada. Sul primo punto Fini non rinnega la libertà di coscienza ma aggiunge che «un errore» cè stato: la carenza di dibattito che ha condotto a quella decisione. «La scelta della libertà di coscienza - spiega durante una conferenza stampa - era sbagliata nel modo in cui labbiamo presa. Avremmo dovuto riunire il partito e dopo averne discusso, forse, saremmo giunti alla stessa conclusione. Quindi dico che sul referendum abbiamo sbagliato tutti sul metodo. Ma ora quella vicenda va chiusa». Anche se Fini, quando gli viene sottoposto lordine del giorno firmato da tutti i colonnelli che chiede di «non modificare la legge 40» aggiunge di suo pugno una postilla: «Se non dopo lesito della verifica previsto dalla legge». Come dire che il leader di An non esclude future revisioni della norma che tante fratture ha creato nel partito. Un punto di equilibrio che a Publio Fiori appare come un cedimento al «relativismo etico» e che lo induce a votare contro.
Laltro punto chiave riguardava lorganizzazione. E anche in questo caso Fini non si piega: Altero Matteoli allorganizzazione doveva essere, e Altero Matteoli è stato. Unica concessione: la più frequente convocazione degli organi statutari. Una soluzione che non convince Gianni Alemanno che, infatti, non ritira le dimissioni da vicepresidente vicario. Per il leader di An, comunque, è quasi bottino pieno: ritrova ununità sostanziale e lo fa grazie a poche «limature» rispetto alle posizioni espresse 24 ore prima. «Io non ho fatto alcun passo indietro. Non cè stato alcun compromesso al ribasso. Abbiamo fatto tutti un passo in avanti perché tutti abbiamo capito che sarebbe stato un azzardo dividerci ora. Tra quello che ho detto ieri e oggi, tranne qualche limatura, non cè differenza». Fini è «soddisfatto» perché An «ha superato un momento delicato», e «ha ritrovato una unità sostanziale», basata «sul superamento del correntismo esasperato», su di «un progetto politico chiaro che prevede An stabilmente allinterno della logica di coalizione». Lobiettivo annunciato è chiaro, a cominciare da un secco no al proporzionale: «Radicare sempre di più An nella coalizione perché se cè più destra nella coalizione il bipolarismo diventa davvero irreversibile. Se la destra è attiva nella coalizione non cè il rischio di derive neocentriste perché non ci sono spazi vuoti da riempire. Noi non siamo la Lega.
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