Fini, tutti lo vogliono (però pochi lo votano)

C’è qualcosa di grottesco, se non di osceno, nel continuo corteggiamento delle oligarchie progressiste a Gianfranco Fini, l’ultimo beniamino dei poteri forti italiani, dopo i banchieri con il portafoglio a sinistra, e gli ex factotum delle aziende dell’auto. Ieri l’intervista di Francesco Rutelli che quasi reclamava il passaggio di Fini con lui, aveva qualcosa che ricordava lo stalking politico: «Fini pensa di continuare a lungo a essere una delle più amate icone della sinistra e puntare a ereditare la guida del centro-destra?». Già. Rutelli giustamente si chiedeva (e ce lo chiediamo pure noi) come l’ex leader di An possa continuare a mettere in campo una rottura profonda, direi quotidiana, con il premier e costruire la futura leadership del Pdl. Da ex coautore della legge Bossi-Fini, a dissociarsi quotidianamente da Bossi, a partire dai temi dell’immigrazione, restando tutt’uno con la Lega». Ovviamente il presidente della Camera non può, e almeno su questo siamo d’accordo con l’ex sindaco di Roma.
C’è qualcosa di grottesco in quello che sta accadendo negli ultimi mesi: Fini cala nei sondaggi, che registrano il suo consenso potenziale fra il 4 e il 6 per cento (quando va bene) e cresce nella considerazione dei nemici del centrodestra con una dinamica inversamente proporzionale alla sua popolarità. In pratica: meno piace agli elettori, più rompe, più cala nei consensi, più riscuote gli applausi della gauche caviar: evviva. Temiamo che per trovare un fenomeno comparabile di una così lampante «impopolarità di successo» si debba risalire negli annali alla mitologica parabola di Mariotto Segni. Dal momento che tutti gli editorialisti gli volevano affidare il Paese in mano, si era convinto – pensate un po’ – lui stesso che il trionfo fosse imminente. Il suo Patto per l’Italia, che a leggere i giornali avrebbe dovuto fare sfracelli e conquistare il mondo, in coalizione con il Ppi, alle politiche del 1994 si arenò ad un miserrimo 12 per cento.
Ecco, questo Fini acclamato come un salvatore, vezzeggiato perché tradisce, osannato perché nei fuori onda infanga la leadership della sua coalizione, dovrebbe imparare dal passato che gli amici del giaguaro non hanno futuro nel tempo dell’Italia bipolare. Lui si immagina come un novello De Gaulle, e invece dovrebbe incominciare a pensarsi come un novello Follini. La sindrome che lo affligge è evidentemente quella del biglietto vincente della lotteria smarrito che fu fatale a Mariotto e all’ex leader dell’Udc. Il primo si ipotizzava presidente del Consiglio e si è ritrovato nel ruolo di pensionato di se stesso, condannato a raccogliere firmette referendarie tutta la vita, pena l’inesistenza. Il secondo si era convinto di essere «Che Guevara» (la definizione è di Gianfranco Fini quando giocava a fare il leader lealista) e adesso è diventato un accessorio critico dei girotondi viola. Il prossimo candidato al ruolo di trombato di successo sembra proprio Fini. Il leader bipartisan non si rende conto che la fronda poteva avere un senso alla corte dei re di Francia, ma che nel terzo millennio è un anacronismo senza senso.
Fini punta alla leadership del centrodestra, si dice. Ma ricorda quei ragazzi un po’ bruttini che a scuola per darsi sicurezza annunciano il fidanzamento con la più carina della classe, e si sentono rispondere sarcasticamente: «Ma lei lo sa?». Ecco, Gianfranco, gli elettori del centrodestra lo sanno che tu ambisci alla leadership? Davvero sarebbero così contenti di farsi guidare da uno che su tutti i temi chiave sostiene posizioni politiche opposte alle loro? C’è chi rimprovera a Fini il suo passato, noi siamo convinti che il vero problema sia il suo presente. Se è vero che i sondaggi gli accreditano una media del 5 per cento.

E, infatti, nessuno ha calcolato che buona parte di questi voti sarebbero sottratti ai partiti di centrosinistra, da autolesionisti progressisti che – magari sotto l’indicazione del Fatto, che lo designa a «vero leader dell’opposizione» – potrebbero rassegnarsi a votare per lui, perché depressi da Bersani. Sai che soddisfazione, per l’ex «fascista del 2000», come lo ha definito una memorabile biografia. Nascere fascista, e finire venticinqueluglista.

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