Finita la tregua Nel Pd ritorna aria di scissione

RomaNon è durata molto a lungo, la tregua interna al Pd sancita la sera della bocciatura del lodo Alfano. E d’altronde era prevedibile, visto che con il congresso (in verità si chiama «convenzione») che si riunisce oggi a Roma si apre la sfida per le primarie del 25 ottobre, e i tre concorrenti hanno bisogno di darsi sulla voce.
Ieri si è tornati a darsele di santa ragione: da un lato Massimo D’Alema ad affermare che la «credibilità di Bersani è incommensurabile rispetto a quella di Franceschini», e a criticare ancora lo strumento delle primarie: sarebbe «paradossale» se il risultato del voto degli iscritti (vinto da Bersani) venisse ribaltato; e in quel caso «certamente» i dirigenti del Pd rispetterebbero l’esito, ma «gli iscritti non so». Dall’altra i franceschiniani lo accusano di «minacciare scissioni, attribuendole agli iscritti» (Enrico Morando), o di «appartenere a un passato che ha scarsa credibilità per gli iscritti Pd» (Mario Adinolfi).
Solo il giorno prima, Dario Franceschini e i suoi hanno colto al volo l’occasione di aprire un nuovo fronte, quando hanno visto la cauta apertura di Marco Follini alla proposta del Guardasigilli di ridiscutere di immunità parlamentare. L’ex segretario udc è schierato oggi con Pierluigi Bersani, e il suo cedimento al nemico è stato messo in conto al candidato segretario. E subito è partito un fuoco di fila di polemiche contro di lui. Il problema è che, in mancanza di un vero scontro di linee e di programmi, a smuovere il dibattito interno c’è solo Silvio Berlusconi e la gara a chi lo avversa di più, solleticando gli umori del popolo di centrosinistra. E Franceschini, sin dalle prime battute della campagna congressuale, ha cercato di caratterizzarsi per i toni antiberlusconiani accesi, e di attirare sulla mozione Bersani il sospetto di eccessiva morbidezza verso il governo. Emblematico il caso del conflitto di interessi, la cui mancata istituzione è stata a più riprese messa in conto da Franceschini e Walter Veltroni all’«inciucista» D’Alema, che di Bersani è il principale sponsor.
Per questo ieri, in un’ampia intervista al Riformista, il medesimo D’Alema si è preoccupato di correggere il tiro mettendo alcuni paletti fortemente anti-berlusconiani attorno al suo candidato. A cominciare dall’auspicio di dimissioni del premier: «In un paese democratico un leader che si trova in questa condizione viene sostituito», ha scolpito, prendendosela con le «élite» e i «grandi giornali» che trovano «normale» avere un premier «contro il quale vi sono accuse così gravi».
Pochi giorni fa era stato lui a dettare la linea «no dimissioni» del Pd. «I governi non cadono per una sentenza», aveva detto, erigendo un immediato argine davanti ai proclami di Antonio Di Pietro. Oggi ha cambiato toni, se non idea, per evitare che l’antiberlusconismo diventi un’arma di propaganda nelle mani degli avversari congressuali.

Quanto il «fattore Silvio» diventerà centrale nella gara interna al Pd lo si capirà oggi, dai toni che i tre candidati useranno nei loro interventi alla convention. Sulla quale peserà un’assenza importante: quella dell’ex segretario Walter Veltroni.

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