La firma di Ronaldinho sul saluto di Leo Finale amaro per Zac

MilanoFa un certo effetto ritrovare settantamila appassionati di calcio per celebrare il Milan-Juventus meno decisivo degli ultimi tempi. Fa un certo effetto ma forse serve a far capire cosa arde dentro il braciere della passione dei rispettivi popoli di tifosi. I due grandi rivali (rinnovata ieri per 4 anni l’intesa per la disputa del trofeo Luigi Berlusconi) possono vivere dieci mesi nell’oscurità, racimolare qualche brutta figura e fermarsi all’anticamera della dignità, masticare amaro per il possibile “triplete” dell’Inter, ma restano Milan e Juventus. Fa anche un certo effetto, per esempio, vedere alla fine Alberto Zaccheroni rintanato in panchina con un ghigno satanico d’insoddisfazione purissima mentre Leonardo raccoglie una generale ovazione. Dopo 13 anni di rossonero e una stagione sulla panchina, scandita da risultati superiori alle attese, è il minimo che si possa fare per un gentiluomo che non ha voglia di consumarsi tra le tensioni della panchina. Non è stata una sfida inutile neanche per Lippi, Ct con la valigia in mano: i suoi azzurri, raccolti tra i due schieramenti, godono di alterna salute. Benino Zambrotta, Gattuso e Pirlo, così così Chiellini, in disarmo Cannavaro, Grosso.
Hanno avuto fiuto. Hanno avuto fiuto i 70mila di ieri sera a San Siro, convenuti per l’addio, tutto sommato malinconico a Milan e Juve che non possono certo andar fieri del presente e non sanno ancora se e quando puntare sul futuro nelle mani di una dittatore dai colori noti, l’Inter di Moratti e Mourinho. Hanno avuto fiuto perché dal prato di San Siro è venuta fuori, per merito collettivo, una prova di calcio che può ingigantire i rimpianti di casa Milan e sottolineare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, i limiti e i difetti strutturali dell’ultima Juventus, messa sotto nella prima frazione da due lampi accecanti dei rossoneri, due contropiedi brevi ma affilati, con Antonini il primo (deviazione decisiva di Cannavaro nel tentativo di recupero) e con Ronaldinho il secondo (dopo scambio con Pato). Hanno avuto fiuto e hanno anche assistito a una serata di struggenti e polemici messaggi (lo stesso Dinho: «Non so se resto»), qualche cambio della guardia, molti abbracci commossi. Tutti i milanisti riuniti per l’addio, hanno tributato a Leonardo il meritato commiato fatto di striscioni, di applausi e di inni al suo eccellente lavoro.
A lui lo zucchero filato, al Milan squadra il riconoscimento di un impegno onorevole, solo al patron Silvio Berlusconi il rimprovero affettuoso («Bocciato il presidente, assente ingiustificato») per il disinteresse marcato nei confronti dei colori. Che non vuol dire solo mercato di basso profilo, ormai diventato un punto fermo del club. Dovrebbe essere Mandrake per fare il mestiere di premier e occuparsi a tempo pieno anche di Milan. Persino la scelta del successore di Leonardo, messa in un cassetto («è vero, Van Basten ha un problema alla caviglia» ribadisce Galliani), è la conseguenza inevitabile del superlavoro dell’inquilino di Arcore: vuole farla lui la scelta, ma deve dare precedenza ad altre incombenze, prima di occuparsi di calcio e del club portato in cima al mondo in 24 anni irripetibili di trionfi e successi a ogni latitudine. Forse non ci vuole granché per migliorare questo Milan e renderlo competitivo, non a livello dell’Inter ma subito dietro: Pato («resta, l’ha deciso Berlusconi» ripete Galliani) e Thiago Silva sono due fuoriclasse, Ronaldinho può far festa con la difesa juventina (Zebina, Cannavaro e Grosso soprattutto in grave affanno: povero Lippi come farà al mondiale?), Nesta guarito (rientro nell’ultima mezz’ora di ieri sera al posto di Favalli giunto al capolinea della carriera) è una bella garanzia, mancano il contorno (ricambi all’altezza) e un centrocampo di cemento armato. Molti i vecchi guerrieri da congedare: Dida e Favalli a fine contratto, più Oddo e Kaladze, Jankulovski.
La Juve sembra più indietro per le dimensioni dei suoi deficit (sconfitta numero 15 della stagione, 56 gol subiti, record negativo eguagliato) e per il cambiamento radicale alle porte: nuovo presidente (Andrea Agnelli), nuovo dg (Beppe Marotta), nuovo allenatore (Del Neri), nuovo schema. «Non si vende Buffon» il canto disperato degli ultrà: è il minimo se si vuole procedere a una rifondazione efficace. Ma il portiere conferma il disagio: «Non so se resto». Ma sarebbe un errore tragico smantellare Vinovo.

In partita la Juve resta pochi minuti, appena 14, prima di affondare nella seconda frazione col colpo da bigliardo di Ronaldinho che deve avere un conto aperto con la Juve, 2 sigilli all’andata, 2 al ritorno. Del Piero è l’ultimo ad arrendersi come deve fare un capitano di lungo corso (la sua stoccata tolta dalla porta grazie a un recupero formidabile di Thiago Silva). Ma non si può ripartire da lui.

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