FISIOGNOMICA Alla faccia del romanzo

Chi segua le tracce lasciate da secoli di letteratura può affermare con una certa fondatezza che Cesare Lombroso non ha scoperto nulla. E che la cultura europea, molto prima di lui, ha indagato e approfondito una convinzione radicata da sempre in molti esseri umani: che i tratti del volto indichino con chiarezza l’indole degli individui. La fisiognomica, non ancora illustrata nei suoi più filosofici paradigmi positivisti, rappresenta infatti un paradigma letterario assai diffuso, anche se non di rado in funzione parodistica o come semplice artificio da disattendere e deludere nel corso della narrazione.
Del resto, che il volto simboleggi, con logica corrispondenza mimetica, lo specchio dell’anima, lo si capisce anche ben oltre i territori del romanzo gotico o dei più diffusi racconti popolari. Un interessante volume curato da Stefano Manferlotti, La scrittura e il volto. Figurazioni fisiognomiche in letteratura (Liguori, pagg. 225, euro 22) raccoglie ora una serie di studi sull’argomento, che mostrano quanto la diffusione capillare della corrispondenza tra descrizione e scrittura non riguardi solo le suggestioni preromantiche o quelle di certa tenebrosa scapigliatura.
Capita che disegnare i lineamenti coincida con una scelta di poetica. È il caso di alcuni sonetti di Shakespeare, in cui il modello provenzale o quello petrarchesco della donna irraggiungibile ed eterea è infranto da tratti somatici inequivocabili. L’amata può avere occhi falsi e corrotti, presentare i segni della malattia o del semplice scorrere del tempo. Con buona pace della tradizione cortese, non è impossibile che la faccia sia solcata dalle rughe e la fronte incisa dalle lancette dell’orologio che scandisce l’incombere della tarda età. Anche lo specchio, elemento essenziale della bellezza (come nel mito di Narciso), diventa l’oggetto di una tragica parodia, riflettendo il volto dell’innamorato attempato così com’è davvero, cioè «sbattuto e raggrinzito dalla malconcia vecchiaia».
La poesia conosce quindi percorsi diversi da quelli delineati dal canone metaforico tipico del Canzoniere petrarchesco e poi codificato dalla poetica di Bembo. Anche nel campo amoroso, la fisiognomica ammette rovesciamenti sorprendenti. Cervantes, ad esempio, in una satira vicina ad alcune esperienze anticlassicistiche italiane, si diverte a canzonare la retorica dei più consunti cliché d’amore, che parlano di donne puntualmente ornate di «capelli d’oro», «fronte d’argento brunito», «occhi di verdi smeraldi», «denti d’avorio», «labbra di corallo» e «gola di cristallo trasparente». Per non dire delle lacrime, descritte sempre come «perle liquide», e della terra che, «per quanto sterile e dura», appena le accoglieva, «produceva all’istante gelsomini e rose».
Ironie a parte, difficile resistere alla tentazione del ritratto: metaforico o realistico, questo ricorso letterario rischia di diventare stereotipo. Al punto che, per paradosso, la scomparsa, l’evanescenza o la metamorfosi del volto (come in molti racconti fantastici: si pensi, in Italia, a Landolfi) finisce per essere anch’esso un topos, un tema poetico.
Dettagli, espressioni e gesti si traducono così nella rappresentazione del personaggio, anche se, come scrive Manferlotti, la fisiognomica - col corredo di tutti i suoi pregiudizi - ne nega il libero arbitrio e una specifica peculiarità. Eppure, si tratti di una scienza vera che merita rispetto o di qualcosa di simile alla superstizione, sia calcolo attendibile o azzardo irrazionale, essa mantiene nei secoli un fascino che non conosce eclissi. I più grandi scrittori non l’hanno elusa, da Goethe a Balzac fino a Manzoni, tutti più o meno impliciti seguaci del pastore svizzero Johann Lavater, che a fine Settecento fu il primo a elaborare la teoria della rispondenza tra esteriorità del corpo e interiorità del carattere.
Ciascuno ha però eletto una parte del corpo a emblema carico di sottintesi: dagli occhi di stilnovistica memoria alle labbra, chiamate in causa da molti come il dettaglio nevralgico di ogni personalità. Nel suo saggio, Massimo Scotti esamina tra l’altro la misteriosa ambiguità del sorriso della Gioconda, sottolineata da Walter Pater, la convinzione di Lavater che nella bocca vi fosse «la sede principale della saggezza e della follia, della forza e della debolezza, della virtù e del vizio, della finezza e della rozzezza dello spirito umano» o quella di Jung che lì si nascondesse l’idea divina della creazione.
Altri, invece, hanno preferito accontentarsi del (forse più semplice) repertorio di stranezze fisiche e inquietanti malformazioni. E qui il volto non può che essere quello, grottesco e deforme, degli abitanti fenomenali di certi baracconi esotici o circensi descritti da Charles Dickens: nani, giganti, fachiri, demoni e cannibali popolanti ludici zoo umani. Salvo poi verificare che talvolta l’anomalo mostruoso, che sembra relegato nelle gabbie o nelle esibizioni itineranti, appare quando meno lo si aspetta, magari confuso tra la massa indistinta dei cosiddetti normali, come accade nel racconto L’uomo della folla di Edgar Allan Poe.

I lineamenti possono essere allora indecifrabili, non fornire indizi e risultare ancora più enigmatici, sinistri nascondendo l’ombra infernale del demonio. Più il volto è anonimo, più fa paura: Mr. Hyde - non a caso - non ne aveva alcuno.

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