di Tony Damascelli
Paff Bum, un tuffo in fondo al cuore. Era il Sessantasei, il ragazzo di Bologna, con la barba, i baffi e gli occhi neri, scuri come la terra pugliese di sua madre, cantava strizzando una voce improbabile, unica, quasi uno strumento, sax, clarinetto, acuta e bassa, strano capriccio sul palcoscenico del festival di Sanremo. Paff bum, inizio di una canzone, fine di una vita.
Lucio Dalla si porta via un altro pezzo della nostra rapida adolescenza e, poi, lenta maturità, era accaduto con un altro Lucio, nato il giorno appresso, il cinque di marzo, dello stesso anno, il Quarantatre, Lucio Battisti, e poi Tenco e De Andrè e Modugno, voci e vinili di un tempo feroce, di feste in casa e passioni in camporella.
La notizia improvvisa manda in frantumi il presepe dei sogni, strappa pagine del diario, album di fotografie. È la vita che va e che ruba allaffetto anche i musicisti, gli attori, i cantanti, compagni di viaggio di un secolo bello e, insieme, difficile, la guerra, la rinascita, il boom del paese che non è lo stesso bum del tuffo in fondo al cuore.
Dalla è un cognome facile, hanno giocato con battute squallide. Anche suo zio, cantante pure lui, aveva un nome improbabile, Ariodante trasformato in seguito, in Dario. Cantava A Rio de Janeiro, canzone beguine, con la voce tipica del dopoguerra, falsetto e melodia esotica. Scomparve, per un fulmine di Giove, un infarto, quando aveva soltanto quarantasette anni.
Lucio è stato ribelle e romantico, di una bizzarria folle e di una dolce saggezza, piccolo di statura e grande di arte musicale, imprevedibile e, in fondo, previsto, futurista (labitudine allenergia e lui così definiva alcuni suoi testi) e capace di pennellate romantiche, poesie di solitudine e malinconia. I suoi sessantanove anni sono stati di musica leggera e classica, sinfonica, jazz, di studio e composizione, di scuola, di recita, anche di cinematografia, gli anni di molti di noi, noi che vorremmo che fosse tre volte natale e festa tutto il giorno, bambini sempre, adulti secondo necessità.
Raccontò, parlando con il collega Dotto, di essersi ritrovato una sera a giocare a flipper insieme con Andy Warhol, lartista era mancino, serviva una mano destra, la coppia fece schizzare la pallina tra i funghi luminosi. Che luna park è stata allora la sua esistenza? È lo stesso Lucio quello che si era dipinto le caviglie di nero, con il lucido delle scarpe, per far credere ai furibondi titolari del Le Roi, il dancing di via Stradella a Torino, che si trattasse di calzini, articolo che lui non gradiva portare ai piedi. Non potendo dipingersi la testa scelse Cesare Ragazzi per sistemare la capigliatura ormai caduta e reduce, si era stufato di lazzi e schizzi per le strade di Bologna.
Artista pure nei ritagli della vita e, quindi, uomo, devoto di padre Pio, di fede, senza stampare manifesti, senza lacrime, rivelazioni e pentimenti in pubblico, davanti a telecamere riunite, né marxista, né comunista, mai, Lucio Dalla uomo di preghiera e mecenate di chiesa. Chi lo avrebbe mai detto? Infatti, nessuno lo ha mai detto, lui per primo (finanziò il restauro della pala di Santo Stefano, la basilica di Bologna nella quale era solito pregare) ma serve a capire lenergia vitale e discreta che, nellultimo Sanremo, lo portò a sbrigare con poche parole la prestazione di Celentano: «Poteva farla più corta...».
Il ragazzo emiliano aveva scoperto il profumo del mare, dopo quello fragoroso riminese, la silenziosa schiuma dellisola, le Tremiti, il mare di sua madre, quellacqua era diventata la carta sulla quale scrivere testi e comporre musica. Il vento spazzolava le onde ma anche il suo corpo e il suo viso avevano preso a tremare, non capivi se fosse un movimento naturale, quasi ad accompagnare lespressione beata e furbastra, oppure fosse il segnale di una tempesta che stesse avvicinandosi, intuendo, così, come è profondo il mare.
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