Roma

Foibe Il quartiere Giuliano-Dalmata, nato dal dramma

«Voi profughi avete sofferto molto. Con voi l’Italia si è arricchita, è diventata più buona. La vostra voce di dolore è stata raccolta da uomini generosi che hanno lavorato per amore di Dio e della Patria». Papa Paolo VI, durante la visita al quartiere Giuliano-Dalmata, così riassumeva la storia di una zona di Roma che è monumento di una tragedia italiana. Una tragedia che sarà ricordata martedì prossimo, giorno della memoria delle foibe e della diaspora dei giuliano-dalmati.
Adiacente all’Eur, oggi il quartiere conta circa diciottomila abitanti, offre servizi all’avanguardia ed è sede di importanti società che operano nel settore economico e tecnologico. Nel 1930 era aperta campagna; solamente con i lavori di costruzione dell’Eur furono edificati dal Regime alcuni padiglioni per ospitare circa duecento operai. «Al contrario di quanto tramanda la storiografia tradizionale - spiega la ricercatrice Roberta Fidanzia, nipote di un esule che si salvò a stento da una foiba - non si trattava di baracche, bensì di casette in muratura, alternate a giardini e porticati. A forma di ferro di cavallo, erano dotate ciascuna di impianto elettrico e fognario; per l’epoca si trattava di un lusso, considerato che anche eleganti palazzine del centro di Roma ne erano sprovviste. Con la guerra, i padiglioni furono abbandonati, salvo essere riutilizzati per un periodo dalle truppe americane, dopo la Liberazione».
A guerra finita, in Istria e in Dalmazia cominciavano le persecuzioni dei cittadini italiani e la tragedia delle foibe. L’esodo dei 350mila italiani epurati dai partigiani comunisti di Tito, rappresentava per il Governo italiano una potenziale minaccia, che decise di dividerli in 109 campi in tutta Italia. Uno scomodo tavolaccio per dormire e un misero panino farcito con la mortadella, questa era l’assistenza-tipo per i compatrioti che nella maggior parte dei casi possedevano unicamente i propri vestiti. Il reinserimento fu assai difficile.
«I comunisti ci odiavano - racconta lo zaratino Fulvio Costa - perché avevamo rinunciato al paradiso di Tito. Molti altri ci consideravano dei “fascisti” semplicemente perché non volevano rinunciare alla nostra italianità e perché cercavamo di sfuggire al massacro delle foibe e degli annegamenti. Ancora oggi non so dove portare un fiore a mio padre: un giorno fu preso dai partigiani di Tito, (che non dimentichiamo, erano aiutati da quelli italiani), e da alora non ne abbiamo saputo più niente».
Il nume tutelare degli esuli adriatici fu l’Opera Assistenza Profughi. Nel 1947 si insediarono nel villaggio operaio abbandonato le prime dodici famiglie di esuli. In meno di due anni se ne aggiunsero altre centoquaranta, che rimboccatesi le maniche, costruirono abitazioni, scuole, ospedali, e la chiesa di San Marco, a forma di nave, per ricordare l’esodo che li condusse, a bordo del piroscafo Toscana, in una nuova terra.


«Il sentimento di italianità era così forte - ricorda l’esule Loredana Colella - che sul Toscana feci da madrina a un bimbo i cui genitori non volevano che avesse la cittadinanza slava, ma quella italiana».

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