Follini ha tradito persino il suo nome

Alla forma della testa di Marco Follini che è un uovo perfetto, corrisponde il suo pensiero che è un'omelette. La metafora va spiegata. Sull'ovalità del cranio folliniano non c'è discussione. L'ha raggiunta negli anni con la sofferta rinuncia ai capelli come in un percorso spirituale

Follini ha tradito persino il suo nome

Alla forma della testa di Marco Follini che è un uovo perfetto, corrisponde il suo pensiero che è un'omelette. La metafora va spiegata. Sull'ovalità del cranio folliniano non c'è discussione. L'ha raggiunta negli anni con la sofferta rinuncia ai capelli come in un percorso spirituale. Sull'omelette le cose stanno così. Tutti abbiamo il nostro Ego che, stando all'immagine dell'uovo, è il rosso. Il nucleo dell'uovo. Poi c'è il bianco che circonda il rosso, lo limita e lo determina e che rappresenta, sempre metaforicamente, il resto del mondo. O, se preferite, gli altri, il prossimo, il contesto. In Marco invece il rosso, il suo Ego, è dilagato e ha travolto il bianco (gli altri). La sovrapposizione ha fatto la frittata. Sommerso il prossimo, nel suo cervello non è restato che lui. Marco è il Mondo. O almeno tutto il suo mondo, senza spazio per chicchessia. Lui è l'unità di misura, l'alfa e l'omega, il bello e il brutto. Ecco perché fa e dice quello che vuole.
Nei giorni scorsi, Marco è passato dalla Cdl all'Unione. Tutti a dargli addosso, a dire che è un voltagabbana. Ma lui cade dalle nuvole e in perfetta buona fede. Questo modo altrui di ragionare, prima ancora che lasciarlo indifferente, gli è incomprensibile. Marco ha la sua direzione di marcia e dare un'impressione, piuttosto che un'altra, non gli interessa. È la conseguenza - squisitamente filosofica - dell'avere abolito il mondo sostituendolo con se stesso.
Lo ha espresso bene in un'intervista al Corriere della Sera, il giornale che gli fornisce quotidiana mallevadoria con articoli cordiali, simpatici profili, difese d'ufficio. «Nei passaggi decisivi si è soli», ha detto, facendo eco al titolo di un suo libro appena uscito, Uno contro tutti. «Pratico il ragionamento, non i salti logici, tantomeno il salto della quaglia», ha osservato respingendo la miope visione di chi lo accusa di tradimento. Lungi dal sentirsi in colpa, Marco si considera un precorritore. Riferendosi ai suoi ex dell'Udc, ha profetato: «Spesso li anticipo. Aspettiamo qualche mese...». Questo è, dunque, l'autentico Follini.
Ignari della sua psicologia, gli avversari si sono chiesti cosa abbia ricevuto in cambio del voltafaccia. L'idea che lo abbia fatto per sé, guidato dall'Ego solitario che governa il suo cervello, non li sfiora. Così, si sono sbizzarriti in ipotesi. Chi ha parlato di soldi, chi ha discettato di future poltrone. Finché il senatore Sergio De Gregorio (che poteva tacere, avendo compiuto di recente il cammino inverso, da sinistra a destra) e alcuni giornali hanno collegato il «tradimento» a una notizia di questi giorni: a Elisabetta Spitz, moglie di Marco (la seconda; ebbe un breve matrimonio in gioventù), è stato rinnovato dal governo l'incarico di direttore generale del Demanio per cinque anni. Eccolo il concambio, hanno detto e scritto. Ora è tutto chiaro: Follini salva Prodi col suo voto e il viceministro per l'Economia, il ds Vincenzo Visco, patron delle Finanze, paga la cambiale confermando alla dirigenza la signora Follini.
Questa illazione parlamentar-giornalistica è però non solo una stravaganza, ma un'immensa gaffe. Follini e sua moglie, infatti, sono separati da tre mesi e i loro rapporti sono burrascosi. I titoli cubitali su questo falso scoop sono solo serviti a imbarazzare l'uno e amareggiare l'altra. La Spitz, infatti, è un ottimo funzionario e il governo non ha fatto che tenerne conto. Elisabetta è un architetto specializzato in alienazione di beni di cui il Demanio si vuole liberare ed è di sinistra. Molto di sinistra e, dunque, in perfetta sintonia con l'attuale maggioranza. Fu lo stesso Visco, ministro delle Finanze dei governi D'Alema, a chiederle alla fine degli anni '90 di lasciare la professione per dirigere il Demanio. La sua riconferma era dunque nelle cose. L'intervento di Marco sarebbe stato in ogni caso superfluo. Ipotizzarlo ora che i due sono ai ferri corti, è addirittura assurdo.
Marco ha 53 anni e non si chiama Marco, bensì Giuseppe. Questo il vero nome. Marco è un nome di battaglia cui i politici ricorrono se insoddisfatti della scelta dei genitori. Per lo stesso motivo Giacinto Pannella si è autoproclamato Marco. Naturalmente, quanto a Follini, continueremo a chiamarlo come desidera, prescindendo dal Giuseppe anagrafico.
Figlio unico, Marco fu stracoccolato dai genitori. La mamma lo tiene in palmo di mano e, già da anni, lo vedrebbe benissimo al Quirinale. La signora, che è di Piacenza, ha grande influenza sul figlio che perciò si sente piacentino. In realtà, è nato e vissuto a Roma in ambiente intensamente democristiano. Il papà era un moroteo vicino ai fanfaniani della Rai guidata mezzo secolo fa da Ettore Bernabei.
L'aria che Marco ha respirato dal primo vagito sono stati dunque politica e giornalismo. Fu preso dall'una e dall'altro al punto che, dopo la maturità classica, rinunciando alla laurea, è diventato redattore del Popolo, il quotidiano della Dc. Si occupava dei sindacati, ma svogliatamente in attesa di diventare un pezzo grosso della Dc. Cosa che è puntualmente avvenuta quando, a 23 anni, fu fatto segretario dei Giovani. Conobbe in questa circostanza sia Pier Ferdinando Casini sia Lorenzo Cesa e nacque un trio di inseparabili che ha retto decenni fino al «tradimento» di una settimana fa.
Dopo tre anni alla testa dei giovani, Follini fu cooptato nella Direzione nazionale ma senza Aldo Moro, l'amico del padre ucciso due anni prima, si sentì un pesce fuor d'acqua. Tanto che si impiegò alla Stet, consociata Rai, tirando a campare. Fu ripescato da Casini e introdotto nella cerchia di Toni Bisaglia. Morto anche Bisaglia nel luglio '84 in circostanze strane, entrò nelle grazie del segretario, Ciriaco De Mita, che lo mise nel Cda della Rai. Ci restò uno sproposito, dall'86 al '93, quanto De Gasperi al timone dell'Italia. Qui gettò le fondamenta del suo futuro. Si legò al direttore generale, Biagio Agnes, e iniziò a detestare Fininvest che della Rai era concorrente. I colleghi cronisti cominciarono a corteggiarlo per avere informazioni. Lui le dava, ma più o meno generosamente in base all'importanza dell'interlocutore. Si creò così una rete di amicizie tra i giornalisti che contano. Tra i favoriti, quattro futuri direttori, tutti appartenenti a uno stesso giro: Paolo Mieli (Corriere), Ezio Mauro (Repubblica), Paolo Franchi (Riformista), Giuliano Ferrara (Foglio). Sono gli stessi che oggi gli danno manforte di fronte alle accuse di «tradimento». Ferrara per tutti: «Chi aggredisce Follini è un bischero».
Per farla breve, arrivò Tangentopoli, la Dc si divise in destra e sinistra e Marco con Casini e Cesa si schierarono a destra con Berlusconi. Da defunti che erano, si rianimarono. Fondarono il Ccd, lo trasformarono in Udc e cominciarono a contare come mai prima. Marco diventò stabilmente il vice di Pier Ferdinando. Il bello e l'intelligente, li ribattezzarono i giornali. La fama di intelligenza di Marco è legata al suo parlare per sentenze e a tre libri che, in realtà, sono uno solo, La Dc al bivio; C'era una volta la Dc; Dc. Nel '96, Marco entrò in Parlamento e da allora è sempre stato rieletto. Una volta, ironia della sorte, con la lista «Contro i ribaltoni».
Nel 2001, eletto Casini presidente della Camera, Marco lo sostituì alla testa dell'Udc. Nel suo primo congresso da segretario, sedevano in prima fila tre vecchi dc speranzosi di contare ancora: Cirino Pomicino, Darida, Bernini. Qualche giorno dopo gli fu chiesto il perché di quelle presenze. «Ti riferisci a Cirino eccetera? Li ho già ammazzati tutti», replicò gelido. Infatti, li aveva appena fatti fuori. Il tono esagerato della risposta è frutto della mentalità di Marco. Ha infatti un disprezzo totale del prossimo e una sesquipedale stima di sé.
Quando, nel 2003, cominciò a mettere in difficoltà la Cdl coi continui attacchi al Cav, il medesimo provò a ammorbidirlo facendolo vicepresidente del Consiglio. Visse l'esperienza come una mordacchia alla sua libertà e dopo quattro mesi si dimise. Riprese la guida del partito ma, continuando a esagerare, fu pregato di farsi da parte. Nell'ottobre 2005, Cesa lo sostituì. A questo punto, Marco si immusonì, era scontento, cercava un'altra strada. La imboccò, ma solo dopo la rielezione con l’Udc e la Cdl. Ottenuto il seggio, fondò «Italia di mezzo», vasto raggruppamento di cui fanno parte lui e un deputato. Nell'ottobre 2006 uscì dal partito, preparando l'attuale cambio di campo.
Tutto ciò somiglia a un cupio dissolvi. Certamente ne ha risentito la serenità.

La moglie, impegnata col Demanio, non ha avuto il tempo di dargli retta. Così, accompagnando a scuola la figlia tredicenne, Marco ha incontrato una signora che accompagnava la sua. E problemi politici e privati si sono intrecciati.

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