Fondazione Pinault, l’arte fa flop in Laguna

Non fosse stato per la «provocazione» di Vittorio Sgarbi, pubblicata ieri sulle colonne del Giornale e riguardante il parcheggio abusivo dell’auto-opera di Richard Prince davanti a Palazzo Grassi saremmo in molti a domandarci che fine ha fatto François Pinault e la sua strombazzatissima fondazione che da quasi due anni espone a Venezia le stesse opere. Dopo l’abbuffata di vip, feste, scandali - oltre alla macchina, la scultura del ragazzetto che afferra un ranocchio, opera di Charles Ray, non è mai andata giù ai veneziani, tanto da essere protetta contro gli atti vandalici da una gabbia e presto verrà sostituita da un lampione all’estremità di Punta della Dogana - dopo che critici e curatori si sono scannati per reclamare il posto di direttore della collezione più chic d’Europa, affidato di recente a Caroline Bourgeois, il tutto sembra essersi davvero ridimensionato. Pinault in Laguna non fa più notizia, tranne per il suo immobilismo (una sola mostra in due anni è davvero poco) e per l’indiscrezione di aver messo in vendita Palazzo Grassi dove un altro nucleo del suo cospicuo patrimonio è esposto dal giugno 2009.
Rumours sempre più insistenti, anche se ufficialmente smentiti, profetizzano comunque lo sdoppiamento delle due sedi. Punta della Dogana, chiusa per i prossimi quattro mesi, riaprirà ad aprile con la mostra Elogio del dubbio, mentre a Palazzo Grassi inaugurerà solo in giugno, inevitabilmente sotto Biennale Il mondo vi appartiene, curata dal nuovo responsabile Martin Bethenod, ex direttore della Fiac.
Non si può non convenire almeno in parte sullo scetticismo che ha sempre circondato il magnate francese, mal sopportato dai concreti veneziani che ricordano con nostalgia i fasti di quando la dimora di Campo San Samuele produceva le grandi rassegne sul Futurismo e Andy Warhol o le mostre d’archeologia sui Fenici e i Cinesi. Avrebbe dovuto apportare un valore aggiunto la presenza di Pinault a Venezia (400mila visitatori in 18 mesi non sono certo un record), un diverso indotto di pubblico amante del contemporaneo, un esclusivo red carpet di divi del cinema e della finanza. Pinault dice di amare solo gli oggetti di lusso; ha in animo infatti di disfarsi quanto prima della Fnac per aggiungere al suo prezioso collier altri marchi esclusivi come Bulgari e Burberry. Il suo modo di rapportarsi all’arte è quello di uno shopper compulsivo dominato dall’ansia del possesso.

Nella sua visione contano i nomi, non le opere di qualità, ma quelle blue chip dell’arte che garantiscono un forte ritorno «social», possibilmente condito da provocazione, e che non hanno nulla da fare con il collezionismo colto e illuminato di tradizione veneziana. Per questo la luna di miele tra la Serenissima e il miliardario d’oltralpe sembra agli sgoccioli e il museo di Tadao Ando un giocattolone che dopo una breve meraviglia suscita quasi indifferenza.

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