La forza del destino e la forza della sfiga

La forza del destino e la forza della sfiga

È inutile provare a chiedere, intanto nessuno lo ammetterà mai. Eppure c’è da giurarci che tra le eleganti signore e tra i distinti signori che sfilano nell’atrio del Carlo Felice per assistere, finalmente, alla prima di «La forza del destino», più di uno nasconda nella borsetta dorata o nella tasca dell’abito «in tiro» un volgarissimo cornetto, un quadrifoglio di «gastoniana» memoria o comunque un amuleto di provata efficacia. Sì perché se contro la forza del destino qualcosa si può fare, contro la forza della sfiga la lotta si fa proprio dura. Certamente non aveva in tasca un cornetto (ma poi, contro certe sfighe, servono davvero?) il grande Giuseppe Verdi, quando nel lontano 1861 si mise in viaggio sulla sua carrozza lasciando i viali alberati della natia Busseto per risalire l’Europa diretto a San Pietroburgo, dove il suo ultimo capolavoro, «La forza del destino» appunto, doveva debuttare. Mica uno scherzetto da poco, a quei tempi, mica come prendere l’aereo oggi. Ebbene, arrivato a San Pietroburgo al maestro non rimane che fare dietro front, destinazione Italia: il soprano era ammalata, niente prima, torni l’anno prossimo. E così sarà.
Bella partenza, non c’è che dire. E così l’opera verdiana, preceduta nel suo incedere attraverso i secoli dalla tristissima fama di menagramo, è stata alla sua altezza anche in occasione dell’allestimento genovese. Proprio a partire dalla prima che era stata programmata per martedì 24 aprile, stoppata da uno sciopero indetto all’improvviso dalle sigle sindacali del teatro. Il teatro allora si dà da fare, viene raggiunto un accordo e lo stato di agitazione viene revocato lasciando lo spazio al debutto.
Tutto bene quindi? Così, così, perché «La forza del destino», anche durante le prove (ma gli addetti ai lavori dicono che non è poi un fenomeno così insolitamente sfigato) si è dovuta confrontare con attacchi di faringite che hanno colpito più di un cantante del cast. Faringiti o no, l’opera di Leonora, la protagonista che il basso Alfonso Antoniozzi, uno che di musica lirica e di retroscena vari se ne intende, ha definito nel suo dizionario operistico «donna sfigatissima e menagramo», ha mietuto anche un’altra illustre vittima nel mondo della musica. Quel Renzo Arbore che si diletta non di arie operistiche ma di canzonette, che una «improvvisa indisposizione» ha tenuto alla larga dal Carlo Felice nella sera di giovedì 26 aprile. Sarà una combinazione, ma quella data si incastrava a perfezione tra le repliche dell’opera verdiana. Il concerto di Arbore sarà recuperato nella sera di giovedì 3 maggio, ma senza dubbio il poliedrico cantante questa volta saprà premunirsi con gli appositi scongiuri, visto che la tragica storia di Leonora, salvo altri «imprevisti», resterà in scena fino al 6 maggio.
Già, Leonora. Sempre per dirla con Antoniozzi, Leonora è innamorata del tenore meticcio Alvaro. Nella notte in cui tentano la «fuitina», vengono bloccati dal padre di lei. Alvaro lascia cadere a terra una pistola che, colpendo il suolo, uccide l’uomo. Tra una disgrazia e l’altra i due sfortunati amanti si ritrovano in convento, dove Alvaro è diventato frate e Leonora è rinchiusa a meditare sulle sue disavventure. Via agli ammazzamenti. Alvaro uccide il fratello di Leonora, il quale prima di morire uccide la sorella.

Nella versione originaria di San Pietroburgo - spiega Antoniozzi - anche Alvaro toglie il disturbo, buttandosi disperato da una rupe, «spinto forse dal terrorizzante pensiero di ritrovarsi legato per l’eternità a quella specie di gufo jettatore di Leonora».
E se la forza del destino resta in scena, speriamo di non vedere ancora all’opera la forza della sfiga... Il nostro teatro non ne ha bisogno.

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