Forza e splendore di una donna-mito

nostro inviato a Mantova
Fu una donna sola. Anzi «soletta» per dirla con Dante che la incontra in Purgatorio XXVII intenta a cantare e a scegliere «fior da fiore». Matelda nacque Matilde (1046-1115) di Mantova: sangue di Lorena, grinta manageriale, affrontò il suo destino, forse più intonato ad un maschio guerriero, con piglio deciso, capelli rossi al vento, una bellezza che non mancò di procurale invidie e un imperturbabile, costante, spleen che secoli prima sembra rubato ai romantici. C'è chi la raffigura guerriera, come il Bernini, con spada e triregno; chi meditabonda col melograno nelle mani a simboleggiare il suo ruolo di mediatrice. Ma la sua essenza supera in complessità ogni sintesi e oggi Mantova, città dove nacque, e le terre lungo il Po, dove decise di morire, la celebrano con un percorso espositivo, al via da domani fino a gennaio 2009, che si articola in tre sedi: la Casa del Mantenga e il museo Diocesano in città e l'abbazia di Polirone, a San Benedetto Po. Assai munifica con le sue terre e con la Chiesa, profeta in patria Matilde però non fu mai. Mantova la mise al bando perché lei, con uno «regno» che si estendeva dalle Prealpi al Lazio, rappresentava un gustoso bocconcino nel risiko fra Stato e Chiesa ma un impervio ostacolo all'affrancamento di una città dal sistema feudale. «Matilde è una testimonial perfetta per far comprendere grandi temi dell'epoca», spiega Renata Salvarani, curatrice della mostra a Casa Mantenga. Dalle lotte per le investiture all'alternanza di scomuniche e deposizioni che Imperatore e Papa si giocavano come briscole, lei tutte vide e tutto valutò Dei gratia si quid est, per grazia di Dio se è qualcosa, come amava puntualizzare. «Capì forse da dove veniva davvero il potere», ironizza Paolo Golinelli, che ha curato l'allestimento a Polirone. Di certo lei non appartenne a nessuno dei molti uomini che la circondarono, a partire da quel padre, Bonifacio, che le lasciò in eredità anche un sacco di problemi. Poi due mariti: il primo era gobbo, il secondo 30 anni più giovane. Nessuna rivincita hollywoodiana di una quarantenne: lui era impotente ma ahimé, potente assai e necessario quanto a «dote». Di questi uomini le mostre tacciono: parlano piuttosto di quel papa, Ildebrando di Soana, quel Gregorio VII in cui il gossip dell'epoca, la libellistica polemica degli imperatori, volle vedere il suo grande amore. Parlano di Enrico IV, il «principe scalzo» che Matilde riuscì a piegare col muso giù nella neve di Canossa, in un gelido inverno del 1077. Da allora, tutti per chiedere perdono siamo andati a Canossa. Ma lei non vi si fermò. La mostra a casa del Mantenga racconta i suoi tempi per oggetti. In due anni Salvarani e i suoi studenti hanno raccolto 258 pezzi, scegliendoli fra più di 600: una sala è dedicata alla riforma gregoriana con grandi rotoli dell'exultet che cadono come dal pulpito di una chiesa. Da Goslar è arrivato anche un trono «portatile» mentre, non potendo giungere da Bamberga l'originale, in 9 mesi a Legnano è stato tessuto in copia il mantello delle stelle di Enrico II.

Di un uomo Matilde si fidò sicuramente: Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, mentore silenzioso cui è dedicata, a cura di Roberto Brunelli, la sezione del Museo diocesano Francesco Gonzaga. La sezione di Polirone, invece, manderà in visibilio paleografi e appassionati di diplomatica, grazie all'imponente raccolta di codici, salteri e mappe di queste terre.

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