Cultura e Spettacoli

La Foster madre disperata: mia figlia sparisce in aereo

L’attrice americana a Roma per l’uscita del giallo «Flightplan»: «Questo film mi ha toccato nel profondo ma ora voglio interpretare una commedia romantica»

Cinzia Romani

da Roma

Allacciate le cinture: c’è da risolvere un enigma a 11mila metri e Jodie Foster, l’attrice, regista e produttrice che da oltre un trentennio mostra il suo talento, non ha voglia di scherzare. Nel thriller Flightplan – Mistero in volo, girato dal tedesco americanizzato Robert Schwentke e in uscita da noi il 4 novembre, l’ex-prostituta bambina di Taxi Driver (1976) e la premiata interprete de Il silenzio degli innocenti (1991, Oscar come miglior attrice), fa la parte d’una madre disperata. Le è sparita la figlia di sei anni, imbarcata con lei su un jumbo jet diretto a New York da Berlino, mentre hostess irritanti fanno la passerella col succo di frutta in mano e tutti se ne stanno placidamente seduti. Una bimba dileguata col suo zainetto, proprio mentre lei, ingegnere aeronautico che, guarda caso, conosce a menadito l’aereo, per aver contribuito a costruirlo, schiacciava un pisolino...
Stupidamente un arabo, uno dei 425 passeggeri del volo internazionale, le fa notare che i figli non si perdono mai d’occhio. Lei, la signora Kyle in maglietta antracite e pantaloni comodi da mamma efficiente, entra subito in paranoia. Anche perché è rimasta vedova e sull’aereo, assieme a lei e alla figlioletta, viaggia la bara del marito suicida. «Non può essersi persa: siamo in un tubo!» spiega il classico paparino fesso ai figli, ansiosi di partecipare al nuovo, stuzzicante gioco: caccia alla coetanea tra le nubi. Ma le cose non sono come sembrano e la povera donna, creduta pazza dal comandante e non solo da lui, si trasformerà in un incubo per la sicurezza a bordo, infilandosi nel vano di carico ed esplorando il solaio, che ospita le tubature del velivolo.
Sarebbe criminale svelare il finale di questo movie-movie (così il regista, scansando in nome del film-film ogni riferimento a chissà quali contenuti metafisici), con Peter Sarsgaard, Erika Christensen e un’irriconoscibile Greta Scacchi nel ruolo d’ una psicologa fasulla. «Questo film mi ha toccato nel profondo: da madre di due figli, so che cosa si prova quando, in un luogo affollato come un supermarket, si perdono di vista i propri bambini. Cuore e stomaco precipitano», spiega Jodie Foster, garbata e magrolina, nella camicetta bianca damascata, che nulla concede alla femminilità in senso classico. Ma la diva, laurea con lode a Yale (in letteratura) e ottima conoscenza dell’italiano e del francese, non è un tipo gnè-gnè. Sulla soglia della mezza età e dopo una quarantina di film, lei, che a tre anni stava sulla scena come testimonial d’una popolare crema solare, è diventata saggia e riflette. «Ora so che devo avere stima del regista con cui lavoro, per dare il meglio. Nel tempo, ho imparato a evitare registi mediocri e a scegliere le sceneggiature che “sento”. Anche se mi si vede sempre in ruoli drammatici e sconvolgenti, dal punto di vista emotivo, mi piace fare cose diverse. Amerei interpretare commedie romantiche, in effetti. Tuttavia, non ho ancora trovato il giusto equilibrio tra recitazione e regia, sebbene sappia cosa mi rende felice e cosa infelice. Al momento, la mia vita personale viene prima della mia vita professionale» dice la Foster.
Attratta dai film claustrofobici, con una donna al centro, possibilmente madre single e con una figlia da difendere (come nel recente Panic room), Jodie ha sempre in mente il suo Leni Riefenstahl Project, come lo chiama lei, che da quasi un decennio s’industria a trarre un film dall’avventurosa vita della regista tedesca cara a Hitler, cercando di superare gli ostacoli posti dalla comunità ebraica Usa («nessuno ha letto la sceneggiatura, né sono riuscita a girare un metro di pellicola» chiarisce l’attrice). «In ogni caso, sto lavorando alla regia di Sugarland, film sugli emigranti giamaicani, ambientato nel sud della Florida. Nel cast, ci sarà Robert De Niro» annuncia la star, che ha chiuso la sua casa di produzione Egg Pictures ( nel 1996 distribuì negli Usa L’odio, pluripremiata pellicola francese). «Sì, c’è voluto tempo, per assorbire la lezione di Hollywood e siccome vorrei che la mia carriera durasse fino ai miei settant’anni, ho appreso a far subito determinate scelte», si scioglie la Foster.

E in perfetto italiano racconta d’aver imparato la nostra lingua a diciott’anni.

Commenti