La mano scheletrica di Steve Jobs è la bussola del mondo. Da quelle dita rinsecchite gli hanno dato sei settimane di vita: «Sta malissimo». Ecco, crolla la Borsa. Ecco, si muove Obama. Il cancro del signor Apple è un caso di Stato che diventa globale, come se stesse per morire un leader mondiale, come se si stesse per chiudere un’era. Steve Jobs è malato, lo sappiamo. Non l’ha detto nessuno, però lo sanno tutti. Ha lasciato la guida dell’azienda per questo, dicono lavori da casa, dicono sia attivo, dicono tutto e poi il contrario di tutto. Adesso non è più come qualche anno fa quando si presentò al pianeta dopo un altro periodo di malattia e se la cavò con una battuta: «Le notizie sulla mia morte sono un po’ esagerate».
Ora non c’è niente di esagerato, tranne il cinismo del National Enquirer che ha mostrato la foto della mano e ha contato i giorni che lo separano dall’addio a questo mondo. Cattivo gusto, sì. Però notizia. Perché qui non stiamo parlando di un imprenditore o di un manager, qui bisogna ragionare con lo schema che tocca i presidenti, i premier, i grandi personaggi mondiali. Non c’è privacy neanche in ospedale, non c’è confine tra diritto all’oblio e dovere di cronaca. Se sta male Sarkozy nessuno tace per rispetto: si pubblica, si dice alla tv, si scrive sul web. Lo sa lui che ha contribuito con le sue invenzioni a creare la nostra società assetata di informazioni. La sua malattia adesso è una merce venduta perché è fondamentale per troppe cose: il destino della sua azienda dipende dalla sorte di Jobs.
Ieri Apple è crollata a Wall Street e così accade ogni volta che trapela una sola informazione su cancro che lo sta ammazzando. Tutto quello che succedeva alle presentazioni dei nuovi prodotti adesso è ribaltato: ieri i mercati impazzivano, oggi si deprimono. Apple vale, Jobs vale. Soldi e con i soldi tutto quello che segue: potere, immagine, stile di vita. L’America ha trovato la Coca Cola del ventunesimo secolo: l’invenzione che certifica ancora un primato che la Cina non può ancora raggiungere. Steve e i suoi dipendenti geni creano tutto ciò che Pechino copia. Washington ci tiene, allora. Così sarà casuale, sarà fortuito, sarà involontario, ma Barack Obama ieri ha incontrato Jobs. Era un incontro con lui e con Mark Zuckerberg di Facebook. «Siamo la nazione che ha messo le auto nelle strade e i computer negli uffici, la nazione di Edison e dei fratelli Wright, di Google e Facebook», ha detto pochi giorni fa il presidente.
Ci crede, Obama. Sa che la rete e il mondo del web sono per lui quello che è stato lo Spazio per Eisenhower, Kennedy, Johnson. Nella finanziaria approvata pochi giorni fa, sono stanziati 18 miliardi di dollari per lo sviluppo delle reti wireless. E questo ovviamente un caso non può proprio esserlo. La Casa Bianca vuole il mondo dell’hitech dalla sua parte, per uscire dalla crisi e per continuare ad alimentare il sogno americano. Quella di ieri era una riunione per parlare di innovazione e creazione di posti di lavoro, ma è stata il giorno della mano di Steve, del timer della morte, del «cerchiamo di scoprire quanto gli resta davvero». Un caso politico, un caso economico, perché mentre Apple crollava in borsa, i soci hanno chiesto al management di sapere subito qual è la strategia della successione a Jobs. La risposta arriverà al prossimo consiglio di amministrazione e dirà al mondo più di quanto abbia raccontato la fotografia di National Enquirer. Non sarà l’unica, perché qui non c’è in ballo la storia di un’azienda, di un prodotto, di una persona.
Jobs è un simbolo, il nuovo totem, la personificazione di un’allegoria che vale il futuro dell’America e non solo. Nulla di quanto gli accade sarà più privato, neanche la morte. Inutile chiedersi perché.
È così. A lui non dispiace neppure: ha capito prima di altri che i suoi prodotti cambiano il mondo perché dietro hanno un’idea che gli permette di farlo. E l’idea trasforma le aziende in qualcosa che non è solo un’azienda.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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