FRANCESCO SAVERIO NITTI

L’incontro fra la democrazia e il liberalismo - così come esso è avvenuto nel corso del Novecento - costituisce uno dei grandi nodi problematici della storiografia. Un esempio della difficile coniugazione fra i diritti individuali e le ragioni della sovranità popolare è rappresentato senz’altro dalla sovrapposizione fra la crisi della civiltà europea e la crisi dello Stato liberale italiano, quale conseguenza generale dello sconvolgimento prodotto dalla Grande Guerra: in questo caso specifico, si può constatare come la democrazia non riuscì a salvare il liberalismo e il liberalismo non riuscì a inglobare la democrazia. Tale fallimento trova una delle sue espressioni più emblematiche nel pensiero e nell’azione di Francesco Saverio Nitti, la cui vicenda politica e intellettuale - per quanto riguarda il primo dopoguerra - è ora ricostruita da un ampio e importante lavoro di Costantino Marco, La crisi della civiltà liberale. Nitti e la decadenza dell’Europa (Lungro di Cosenza, prefazione di Piero Craveri, introduzione di Fabio Grassi Orsini, euro 30).
Il carattere drammatico della riflessione nittiana può essere compendiato nell’idea che la pace scaturita dall’evento bellico sarà preparatrice di un altro conflitto molto più tragico e devastante. L’Europa, e con essa l’intero Occidente, non riusciranno a evitare un’ulteriore guerra perché le cause del malessere europeo sono intrinseche al suo stesso sviluppo, sono, cioè, parte integrante della sua vita. Specialmente i vincitori, vale a dire i portatori della democrazia - in modo particolare Inghilterra e Francia -, non sembrano mossi da saggezza e moderazione, ma dalla vecchia logica dell’egoismo nazionale, tendente a ricostruire il nuovo ordine politico secondo i propri interessi. I trattati di pace firmati a Versailles sono ben diversi dallo spirito di equilibrio profuso un secolo prima nel congresso di Vienna. Il nuovo principio di nazionalità, che dovrebbe essere fondato sulla vera autodeterminazione dei popoli, è pervaso da una logica di potenza che non tiene conto dell’effettiva situazione storica nella quale si trovano le popolazioni soggette ai nuovi mutamenti.
Nasce da qui il male che distruggerà l’Europa, vale a dire una diffusa incertezza perché le nuove unità statali, scaturite dal collasso degli imperi austro-ungarico, russo e tedesco, sono prive di una vera legittimità; esse risultano deboli, essendo circondate da rivendicazioni e rivalse nazionalistiche di ogni tipo. Soprattutto la pace punitiva imposta dalla Francia alla Germania mostra per Nitti tutta la fragilità dei futuri rapporti internazionali. La pacificazione non è edificata su un terreno d’intesa generale accettato senza riserve dai vinti e dai vincitori perché condizionata da uno spirito vendicativo. A questo proposito Nitti ha piena e lucida consapevolezza che la Germania, alla lunga, si ribellerà al trattato di pace. Oltretutto, come non vedere che essa non sarà in grado di far fronte alle esorbitanti richieste delle riparazioni di guerra? Solo gli Stati Uniti potrebbero dare stabilità e sicurezza all’assetto internazionale, ma questo purtroppo non avverrà a causa dell’insorgente isolazionismo manifestatosi con la fine della presidenza Wilson.
La crisi europea e la crisi italiana si intrecciano nel pensiero nittiano per il continuo parallelismo da lui operato fra le due realtà. Ciò che emerge con forza dalle pagine del lavoro di Costantino Marco è il significato epocale del mancato incontro tra il liberalismo e la democrazia, tra la coscienza liberale e la coscienza nazionale, sullo sfondo dei rapporti ormai mondiali che condizionano gli Stati. Per quanto attiene all’Italia, si osserva che essa darà vita al laboratorio più avanzato della caduta del liberalismo sulle cui rovine nascerà il fascismo, quale emulo dell’affermazione totalitaria, già sprigionatasi nella Russia sovietica.
Nitti è l’uomo politico italiano che ha la maggior consapevolezza della necessità che il liberalismo si apra alle istanze democratiche, ma è anche colui che, pur pervaso da questa consapevolezza, fallisce nello scopo (il suo ministero durerà solo un anno: 1919-1920), come fallirà Giolitti con la sua illusione di assorbire all’interno dello Stato le forze antisistema, rosse e nere.
Le ragioni di questi fallimenti si rinvengono nei limiti della classe dirigente italiana e nella sua incapacità di mettere a frutto la vittoria militare, lasciando all’emergente fascismo la possibilità di catturare il consenso popolare e di trasformare la domanda di democrazia in una risposta di dittatura. Si aprono così, a ritroso, gli interrogativi sulle cause di tale esito e dunque la valutazione sull’eredità del Risorgimento e sul primo cinquantennio dell’Italia unita.

A questo passaggio epocale della storia italiana, fa da controcanto la profonda mutazione subita dalla cultura europea, la cui fenomenologia si evidenzia nell’autonomia dei governi da ogni ispirazione cristiana, nella critica al paradigma del progresso universale, lineare e irreversibile, nell’abbandono del cosmopolitismo umanitario, nel trapasso da un’antropologia ottimistica a una pessimistica, nel ripudio della concezione positivistica, nell’affermazione di un romanticismo mistico e di un vitalismo violento; tutte premesse psicologiche e culturali che sono in profondo contrasto con l’ethos razionalistico della società borghese e dunque, più in generale, della civiltà liberale. Una crisi che aprirà le porte all’insorgenza totalitaria, comunista, fascista e nazista, la quale trascinerà l’Europa nella catastrofe della seconda guerra mondiale.

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